Altro ambito coinvolto in prima persona nel discorso che andiamo facendo è quello che la cultura moderna ha riservato, fra l’altro probabilmente anche come valvola di sfogo, a ciò che spesso impropriamente è stato definito «l’irrazionale», meglio identificato dagli addetti ai lavori come «l’ambiguo»: ci riferiamo all’ambito estetico.
Anche l’intuizione artistica è oggi in qualche modo ipostatizzata, e il prototipo omerico del veggente cieco, del poeta che non abbisogna degli occhi fisici perché dotato della vista interiore, ancora domina, ma lungo i canoni di un’estetica selvaggia, slegata cioè da ogni paradigma metafisico, la quale si muove nel migliore dei casi attraverso gli indeterminati percorsi, spesso a loro volta neomitici, dello psicologismo.
In epoche e culture diverse dalla nostra, precedenti o periferiche ad essa, l’estetica (in senso lato la scienza di ciò che è sensibile, visibile, manifestato) è considerata intimamente correlata, «come una scorza al nocciolo»1, ad un centro che è intellettuale in senso aristotelico, invisibile, remoto, ed in senso stretto metafisico; da questo punto di vista, legittimamente mitico, ogni operare umano è esteriore, ed ogni atto è estetico, nel senso che il primo discende da quel nocciolo trascendente, e il secondo ne è traccia, testimonianza, lo ri-vela2.
Ora, la socio-cultura contemporanea si rifà ad una weltanschauung che ha volutamente reciso ogni teoria dell’invisibile3, e che, come abbiamo visto, ha parimenti riformato l’idea di materialismo; in quest’ottica ciò che è esteriore, visibile e, per estensione, immaginabile riveste la primaria importanza di unico campo di indagine, giustificando perciò un’estetica autoreferente, esattamente come di solito si ascrive ad ogni mitologia. Ci troviamo così di fronte ad un’idea di creatività, di intelligenza divergente, che, se da un lato propizia forme fideistiche in un intellettualismo, quello degli «operatori artistici», che definiremmo perlomeno vago, dall’altro serve un estetismo alienante non di rado funzionalizzato all’opera di convincimento dei mass-media. Defunta l’arte sacra, scomparso l’artigianato (quindi l’antica idea che è arte il «far bene ciò che deve essere fatto») e rimasto alle spalle quell’uso sociale della stessa che fu teorizzato in un passato più recente, ciò che rimane è poco più di un’altra forma di «totemismo»4, di mantica trasposta che vede nell’artista il suo vate e nel critico d’arte la sua auctoritas.
Spiegheremo meglio il nostro modo di vedere la cosa. Nella civiltà arcaica l’operare estetico principia, per così dire, come «evento naturale», come un oggettivo dispiegarsi delle verità sovrannaturali intersoggettivamente condivise; per questo nella socio-struttura mitica l’arte è in un certo senso slegata dall’artista, il quale infatti non è coinvolto individualmente nella sua operazione: questa più che una «creazione» è una «traduzione», o meglio, una tradizione. La soggettività dell’artista è in quanto tale estranea, come è testimoniato dall’anonimato dell’opera.
Con l’avvento della cosiddetta «sensibilità moderna», che possiamo far coincidere con il Rinascimento occidentale, assistiamo ad un graduale soggettivizzarsi delle produzioni artistiche, che va d’altronde di pari passo con il sostituirsi dell’individualismo umanista all’organicismo teocentrico; si viene in questo modo a formare, assieme all’idea stessa di «arte» (come corpo-significante in qualche modo decontestualizzabile dalla sua funzione), quella di «artista», inteso come individuo che, posto dal «talento» in un misterioso luogo di convergenza delle istanze socio-esistenziali di un dato periodo storico, quale capovolto «prisma cromatico» ne rifrange un raggio sintetico: l’opera d’arte. Questa non solo esprime di quel periodo l’essenza attraverso lo «stile» e la sostanza attraverso la «tecnica», ma ne anticipa, esteticamente convertite, intuizioni globali che solo la storiografia, a posteriori, può scientificamente operare5.
Diremo di più, riprendendo le considerazioni esposte nel capitolo precedente. Dopo quella che abbiamo appena descritta, che possiamo considerare una parentesi storica, alla luce della cosiddetta «cultura debole» post-moderna non sembra più verosimile ipotizzare, data l’oggettiva impossibilità di veder convergere e sublimarsi in un solo athanor i frammentari coefficienti del mondo contemporaneo, un’arte che totalmente rappresenti l’epoca; per questo vengono attualmente teorizzate «mantiche» estetiche «a mosaico». Ma ecco così che, a nostro avviso, a quell’ente sovraindividuale corrispondente al noûs metafisico, del quale l’uomo della civiltà arcaica non era che l’artigiano più o meno illuminato, lungi dallo scomparire viene a sostituirsi, nel mondo contemporaneo, un ente altrettanto invisibile, ma collettivo ed infra-individuale: la Pubblicità. Il suo lessico composito è il solo linguaggio artistico che effettivamente corrisponda alle caratteristiche di smaliziata frammentarietà e di sapiente incoerenza stilistica richieste per «universalizzare» e sintetizzare la cosmopolitica ed analitica coscienza esistenziale contemporanea.
Concludendo, ci sentiamo insomma di avallare l’idea che all’arte sacra tradizionale (non parliamo, beninteso, della cosiddetta «arte religiosa» moderna) corrisponda nel mondo post-moderno la contraffazione universalistica della pubblicità. Ciò attraverso un percorso involutivo nel quale ravvisiamo tre fasi: il mondo antico che produce opere anonime, quello moderno che fonda l’arte e produce «artisti», e infine quello contemporaneo; quest’ultimo rinuncia di nuovo, per forze di cose, al «genio» romantico, e ritorna segretamente, neo-miticamente, all’anonimia di specialisti artigiani che fanno convergere, nella apparente sovraindividualità dell’espressione pubblicitaria, tutte le istanze, tutte le professionalità e tutti gli stili che informano tale epoca6.
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Le nuove generazioni sono, come sempre, la cartina di tornasole dell’impegno o del disimpegno (spesso della cantonata) pedagogici di una società; ecco quindi che tutta la cultura giovanile post-moderna (così ben rappresentata dalle consuetudini comportamentali che gravitano intorno a quell’altra forma neo-parabolica di narrazione artistica che è la video-music), quando nelle sue frange provinciali non si trova a vivere la triste condizione di sopravvissuta a se stessa, assume caratteri oscuramente «cavallereschi», in un agire dove il mito del computer si associa ad un neo-spiritualismo che ha come «mantra»7 una musica non a caso pronipote della musica tribale negra, sacrale ed estatica, e come imperativo la febbrile ricerca di un indeterminato graaledonisticamente estetico e mitologicamente scientifico. Nell’ambito di queste considerazioni non è azzardato ipotizzare che la cosiddetta disco-music, abbandonato o riformato il carattere sentimentalistico proprio ai precedenti generi musicali da ballo, rappresenti lo strumento di una sorta di moderna tecnica dell’estasi8; consumata in quei «templi» della pulsione libidica che sono le attuali sale da ballo, questa estasi è priva però di un fine preciso, che non sia l’affermarsi di quel narcisistico edonismo collettivo di cui sopra9.
Vediamo in questo contesto di accennare a quell’insidioso racconto neo-parabolico che è la video-narrazione di massa, tecnica espressiva che può essere utilizzata, come noto, per gli scopi artistico-propagandistici più diversi, e la cui stretta parentela con il tipo dello spot pubblicitario risulta evidente.
Il carattere peculiare di tale prodotto è il calibrato connubio tra immagini, attinte dalle «cineteche» dell’immaginario collettivo, emusica, in un montaggio esasperatamente ammiccante sviluppato lungo una poetica volutamente ambigua ed apparentemente frammentaria, sospesa tra la velleità psicologistica ed il luogo comune, secondo i casi dissacrato o confermato; il tutto viene confezionato secondo i raffinatissimi e sincretistici canoni estetici post-moderni. Il prodotto finale, proprio grazie all’ambiguità delle forme e dei contenuti, risulta efficacissimo veicolo di messaggi (affastellati in modo più o meno conscio dagli autori) altrimenti di difficile espressione, almeno in modo altrettanto sintetico e diretto; esso permette quindi una gamma praticamente illimitata di significazioni e di possibilità proiettive da parte del fruitore. In questo modo vengono confermati i nuovi «dogmi» del mondo contemporaneo, i quali, essendo espressi attraverso idee senza parole, fondano l’iconografia del «mistero della fede» post-moderno10. Lo stesso ricorso al nonsense, ormai completamente assunto dalla narrazione contemporanea, riportandoci alla mente i koan di buddhistica memoria non fa che confermarci quanto detto11.
Possiamo inoltre aggiungere questo: dato che la vita ordinaria di massa contemporanea scorre sul doppio binario di un tempo e di uno spazio rappresentati, in quanto spesso mediati, essa in qualche modo esistenzia universalmente, facendolo proprio, quel tipico carattere diacronico e spazialmente eterogeneo su cui si basa la fruizione cinematografica, il quale appunto, anche poiché indissolubile dalla narrazione in genere, è consustanziale al mito12.
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Ci si permetta un’ultima breve serie di considerazioni, forse un poco tangenziali rispetto la nostra esposizione, ma che permetteranno di comprendere meglio ciò che intendiamo dire quando parliamo di atteggiamenti pseudo-cavallereschi ravvisabili nel comportamento esistenziale dei nostri contemporanei, in particolar modo dei più giovani: vogliamo attirare l’attenzione su determinati aspetti del fenomeno sportivo. È certamente scontato ricordare che generalmente nell’antichità, o comunque nelle civiltà a socio-struttura mitica, le attività ginniche (palestre, ludi, agônes) erano, per così dire, un fenomeno dai risvolti spirituali, nella compagine del quale il fine da raggiungere, il superamento di se stessi o una certa idea di victoria adombravano, almeno idealmente, il conseguimento di un obbiettivo d’ordine squisitamente interiore; e ciò non di rado alla luce di una teoria realizzativa metafisicamente fondata. Nemmeno occorre soffermarsi sul fatto che al giorno d’oggi certe forme di fanatismo sportivo riecheggiano altri entusiasmi di ben altra levatura spirituale, come quelli (ma non è questa la sede per affrontarne la delicata problematica etica connessa alle forme esteriori) delle antiche guerre sante, attualmente parodiate negli stadi calcistici.
Vorremmo piuttosto soffermarci un poco su di uno sport che ultimamente ha conosciuto, prima oltreoceano poi in Europa, una enorme fortuna, probabilmente anche grazie alle concessioni di tipo edonistico che offre: ci riferiamo al body building, altrimenti noto in Italia come «culturismo». La diffusione di questa disciplina a livello di massa ha reso ormai desuete le «pancette» squisitamente europee che un tempo affliggevano chi non era impegnato in attività fisiche, creando una gioventù che farebbe invidia ai vecchi teorici dell’eugenetica; ma non è tanto questo nuovo mito della razza che ci interessa, quanto alcuni aspetti della prassi di questa neo-spartana forma sportiva.
Da sempre, fin da quando il culturista era ritenuto una specie di «caratteriale», questo sport si era rivestito di una sorta di etica pseudo-eroica che spaziava dall’altruismo al senso dell’onore e del sacrificio, ma mai come oggi esso ha rivelato un profilo che oseremmo definire pseudo-religioso; la palestra attuale è propriamente una contraffazione di certi luoghi orientali di addestramento alle arti marziali: in essa, però, ai termini tradizionali della costruzione dello spirito si sostituiscono quelli, post-moderni ed edonistici, della costruzione del corpo. Nella devozione insieme spartana e civettuola, e negli sguardi «olimpici» dei «priori» di questi «chiostri» – gli allenatori – vi è una vera e propria mistica della trans-figurazione, della «rinascita a nuova vita» in un «corpo glorioso». Ma fin qui ci si potrebbe trovare di fronte a caratteri presenti in ogni tipo di sport; è piuttosto nel profilo dell’allenamento in cui il «novizio» smilzo ed allampanato deve cimentarsi, che ravvisiamo un curioso carattere neomitico. Come si sa, questa disciplina si basa sullo sforzo fisico e sulla indefinita escalation verso la forza ed il volume muscolare puri; a questo fine gli esercizi sono strutturati in cosiddette «serie» ripetute all’esasperazione, e scandite in ritmi rigidamente ordinati in movimenti, per così dire, «perpetui». L’impressione che se ne riceve è che subentri nel soggetto una sorta di pax, o viceversa di furor, derivanti da questa meccanica specie di «adeguamento ai ritmi universali», analogamente a ciò che dovrebbe accadere conformandocisi alle forme esteriori e comportamentali delle pratiche religiose, come nel caso, ad esempio, della orazione rituale islamica; in quest’ultima infatti la fissità e l’immutabilità ripetitive di determinate gestualità tenderebbero, fra l’altro, a reintegrare l’individuo «esule» nel movimento cosmico e nei suoi cicli. Come l’orazione islamica è ripetuta a determinate ore del giorno e della notte, così il body-builder si allena in orari ed in tempi rigidissimi, e come l’orazione rituale è divisa in rak’a (parti costitutive), così gli esercizi del nostro sono divisi, come abbiamo detto, in analoghe serie. Ancora, se in linguaggio culturistico si può dire di fare «100 più 100 ripetizioni» di flessioni ad un muscolo o ad un altro, in linguaggio islamico si può dire di fare «100 più 100 ripetizioni» di pronuncia di un nome divino o di un altro (pratica sufica del dhikr), per non parlare poi delle rigorose interdizioni alimentari e sessuali comuni ad entrambe le discipline.
La differenza sembra risiedere solo in ciò che si vuole costruire, nei due opposti tipi di uomo universale (in arabo al-insân al-kâmil) che si persegue.
Bisogna inoltre considerare il fatto che, come dicevamo, lo sforzo, fondamentale in questo sport, è parimenti basilare, sotto il nome di jihâd, nella pratica islamica; la tensione muscolare prende quindi da un lato il posto della tensione spirituale del mussulmano (muslim, lett. «sottomesso»), e dall’altro ci può anche ricordare, ad esempio, ciò che adombravano certi antichi riti stagionali giapponesi, dove la estrema fatica fisica sostenuta dai giovani addetti al trasporto di un pesantissimo tabernacolo era considerata in grado di favorire aperture di genere spirituale. Indubbiamente, infatti, i culturisti sono profondamente convinti dell’aspetto «catartico» della loro disciplina.
Così, dopo due ore di palestra tese alla costruzione estetica del proprio corpo, il nostro «fedele dei pesi» (maschio o femmina come si sa non fa differenza) può avventurarsi «cavallerescamente» per i viali della propria città, con la non tanto inespressa speranza di vivere in prima persona un «eroico» video-clip, una qualche composita saga post-moderna. Tutto ciò vale, beninteso, per un esiguo numero di casi, i migliori; degli altri non sarà più una qualsivoglia disciplina umanistica a doversi occupare, ma una scienza, questa volta, strettamente naturalistica: l’etologia.
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Risulta forse utile, in questo contesto, redigere una breve nota circa quel curioso fenomeno socio-culturale dei tempi ultimissimi che va sotto il nome di survivalism, letteralmente «sopravvissutismo»; esso è legato evidentemente ai nuovi miti del corpo e dell’efficienza fisica, e li sposa, a livello di moda estetica e comportamentale, con una vaga e chiaramente neomitica idea apocalittica, magari immaginativamente post-nucleare. La vague consiste nel proiettarsi fantasticamente al di fuori dell’ambiente tecnologico attuale e, in vista del disastro ecologico o meno, imparare appunto a sopravvivere contando sulle sole proprie forze, ed eventualmente su pochi, essenziali, strumenti primitivi; a questo fine si deve innanzitutto costruire un corpo efficiente, e al caso ricorrere a dei veri e propri «corsi di sopravvivenza» ormai diffusi anche in Italia, dove si impara a diventare dei perfetti «Rambo-scout» della situazione d’emergenza. Ecco quindi che questa voga, come molte altre dell’annoiata società post-moderna, diluendosi va a far parte integrante, magari all’insaputa dei protagonisti, del mosaico esistenziale neo-cavalleresco del quale abbiamo già parlato: è infatti in questa prospettiva che vanno inquadrati fenomeni-spia come la già citata affluenza di massa alle palestre di body-building, il proporre da parte dei negozi specializzati in abbigliamento giovanile una bussola da polso o da collo come accessorio di vestiario, o la moda diffusissima di acquistare quel tipo di automobile, funzionale certamente nella savana africana ma perlomeno sprecata nei nostri paesaggi urbani, definita «four wheels driving», o più semplicemente «fuoristrada».
Tutti tasselli questi, che, unitamente all’abitudine della frequentazione delle sale cinematografiche in cui si proiettano quel tipo di films di cui ci occuperemo più oltre, vanno a comporre la complessa e sfuggente personalità di quel giovane «cavaliere» post-moderno che in Italia va sotto il nome, alquanto generico ed impreciso, di «paninaro». Lasceremo le considerazioni legate all’evidente «apocalittismo» di questi fenomeni al lettore, il quale potrà inoltre divertirsi nello scoprire tutto il tessuto fatto di citazioni della mitica tradizionale ravvisabile in giochi estetici come quello della «sopravvivenza simulata»13.