Nell’ambito dell’arte e della storia dell’arte disponiamo dunque oggi di strumenti tecnologici molto potenti, che sono utilizzabili per scopi sia di ricerca scientifica sia di didattica. Questi strumenti sono alla portata di tutti coloro che siano in una minima misura alfabetizzati all’uso del computer e delle nuove tecnologie.
Si tratta in definitiva di un insieme di applicazioni software di facile reperibilità e di costo piuttosto contenuto (se non, come spesso accade, addirittura gratuito) che per essere utilizzate richiedono come hardware niente più di un normale computer multimediale, uno di quelli che sono ormai in molte case e nella maggior parte delle aule informatiche delle scuole; computer che, come sappiamo, non vengono sempre sfruttati al massimo delle enormi possibilità consentite dai moderni microprocessori.
Nei capitoli seguenti vedremo dunque di descrivere parte di questo software e il modo in cui può essere utilizzato conformemente ai nostri obiettivi, anche a livello amatoriale.
Ma prima di addentrarci nel campo delle proposte operative, ricordiamo la grande differenza che intercorre fra l’uso di tali strumenti per una finalità scientifica di ricerca o piuttosto per un fine didattico. In verità entrambi questi approcci possono avere un carattere scientifico, tuttavia poggiano evidentemente su paradigmi affatto diversi. La ragione per la quale è necessario considerare sia l’ambito della ricerca sia quello della didattica risiede nel fatto che -evidentemente- essi concorrono in egual misura ed importanza a dar corpo agli obiettivi delle discipline museali, digitali od analogici che siano i loro ambiti espositivi e virtuali od attuali che siano gli oggetti che trattano.
L’ambito della ricerca storiografica
La ricerca, nell’ambito della Storia dell’arte, pretende che i suoi oggetti siano lasciati il più possible illesi, nella propria sostanza formale ed espressiva, dall’indagine svolta; come vuole -per esempio- la moderna teoria del restauro conservativo, il quale deve assolutamente rinforzare senza snaturare, s-velare senza ri-velare, i propri oggetti, come invece si usava fare nel XIX secolo.
Qualsiasi ricerca che voglia analizzare determinati elementi di una cultura o di un’espressione artistica, di un manufatto o di un artefatto -e conservare per il futuro il risultato della propria indagine- deve cercare di lasciare da parte qualsiasi velleità interpretativa che non riguardi esclusivamente la nuda natura dei fatti; questo ovviamente nella misura di ciò che è fenomenologicamente consentito. In questo senso le nuove tecnologie dispongono di strumenti di indagine talmente accurati e “freddi” da favorire notevolmente l’isolamento dei dati oggettivi, strumenti che consentono di applicare all’occhio dell’indagatore l’impersonalità del calcolo numerico.
Il laboratorio didattico
Viceversa, il paradigma scientifico della didattica -particolarmente quando vuole conservare quel profilo umanistico proprio della scienza pedagogica- può perdonare l’imperfezione, inerente talvolta alla restituzione “interpretata” del dato oggettivo, che si viene a creare quando esso incontra la soggettività del fruitore, come necessariamente accade in ambito educativo.
Anzi, tale “imperfezione” non solo viene perdonata, ma, sotto gli auspici della teoria critica dell’opera aperta1 (che intende l’opera d’arte solo come un “momento” di un processo comunicativo circolare che si conclude soltanto con il feed-back dell’interpretazione), viene spesso favorita e ricercata nella pratica laboratoriale della Didattica dell’arte, così come spesso la vediamo praticata a fianco dell’attività espositiva dei musei e delle gallerie.2 Anche in questo caso, le nuove tecnologie sembrano fatte apposta per favorire tale processo interpretativo, viste le enormi possibilità di modellizzazione, simulazione e manipolazione degli oggetti d’indagine che –per loro natura- consentono, con le svariate opzioni di smontaggio e rimontaggio dei dati che comportano.