L’Avatar è considerato nella tradizione indù una “manifestazione del divino”, un’incarnazione umana – per usare un concetto d’ambito cristiano – della potenza metafisica, una diretta emanazione del sacro. L’avatar ha il compito e la destinazione di “significare” la realtà terrena dal particolare punto di vista ultraterreno, ed è una prova, ed insieme un aiuto, offerti agli uomini della comunità in cui si manifesta.
E’ un concetto in parte connesso a ciò che in ambito semitico prende il nome di “funzione profetica”. E’ grazie all’avatar, come al profeta, che il metafisico si manifesta alla percezione degli uomini. Si tratta di una vera e propria scintilla – una scheggia – del divino, il cui compito principale è quello di collegare (in latino religo, da cui “religione”) il mondo – in sé perduto nell’oblio della propria esistenza e inconsapevole parte del Tutto – al suo necessario principio (che i semiti chiamano Dio), solamente nel Quale risiedono le ragioni – altrettanto necessarie – della sua esistenza. La conoscenza (che i greci chiamavano sophia) di queste ragioni, e le conseguenze comportamentali ed esistenziali che ne derivano, costituiscono in sé – secondo tutte le tradizioni metafisiche e religiose dell’umanità – l’unico coefficiente autenticamente “umano” presente nell’uomo (la cui presenza lo rende appunto tale), il cui compito è, come descritto da queste stesse tradizioni, quello di partecipare consapevolmente ad una sorta di “metabolizzazione” dell’essere nell’ essere autentico del mondo, secondo un Progetto destinale di “concreazione” (che gli indù chiamano Dharma) di cui l’uomo è l’unico protagonista, almeno sul piano esistenziale in cui egli si manifesta. E’ dunque attraverso l’intercessione degli avatar – secondo la concezione indù – che tale funzione “superumana” dell’uomo (per citare S. Tommaso quando afferma che humanus superhumanus est1) trova modo di potersi compiere, nella dinamica universale di ciò che le civiltà tradizionali concepiscono come un perpetuo fluire, in qualche modo meta-fisiologico, della luce del Principio nella Sua Conseguenza nel mondo; una “discesa” – come esplicitamente la definiscono gli indù – che presuppone la “risalita” della redenzione, in una eterna e necessitante circolazione cosmica.
La circostanza che il termine “avatar” sia stato utilizzato negli ultimi anni in ambito informatico – segnatamente telematico – ad indicare qualcosa che, come vedremo, è concettualmente molto simile, non appare dunque un semplice caso, ma una prova del fatto che, come abbiamo già notato, sullo sfondo di un pensiero perdutamente materialista e totalmente pregiudiziale nei confronti di qualsivoglia concezione spirituale e metafisica conosciuta dall’uomo del passato, nell’immaginario espresso dalla cultura di massa contemporanea tali ambiti tecnologici hanno gradualmente preso il luogo di quelle antiche concezioni e, complice il loro carattere in qualche modo “immateriale”, hanno tratto a sé, riutilizzandole ed addirittura “spiegandole” all’interno del proprio sistema chiuso di rappresentazione2, tutte le catene linguistiche e le dinamiche simboliche e narrative che erano loro proprie.
In ambito telematico – quella branca dell’informatica applicata alla telefonia che ha rivoluzionato i sistemi di comunicazione nel periodo a cavallo del nuovo millennio e nel cui contesto è nata la rete Internet – il termine avatar è stato inizialmente utilizzato per definire una rappresentazione grafica tridimensionale – più o meno realistica – della persona fisica dell’utente di un ambiente virtuale di conversazione (chat, letteralmente “chiacchiera”), per poi estendersi con questo significato ad ogni ambiente virtuale generato dal computer. L’avatar è dunque il rappresentante simbolico, la traccia virtuale, l’alter-ego elettronico dell’utente immerso nell’ambiente informatico; è la persona che gli altri utenti possono identificare dell’interlocutore, la sua “maschera” sottile. Nell’ambito dei recenti sviluppi della tecnologia della rete Internet e delle sue accresciute potenzialità tecnologiche (che permettono la trasmissione di dati quantitativamente molto ingenti per la mole di calcolo che comportano), tali “avatar” sono realizzati in grafica tridimensionale “miracolosamente” realistica: si muovono in ambienti di conversazione che, abbandonata la forma delle finestre di testo condivise, tipiche delle prime interfacce, appaiono a loro volta come ambienti tridimensionali in cui gli avatar dei vari utenti si incontrano, discorrono ed interagiscono, secondo una forma dello “spazio immersivo” molto vicina a quella della maggior parte dei videogiochi in 3D di ultima generazione; con questi, tali ambienti di conversazione sono del resto imparentati, non solo per l’aspetto riguardante l’ambiente virtuale ma soprattutto per la giocabilità in rete da parte di molti utenti contemporaneamente, che la maggior parte di questi giochi permette e che – proprio nella forma della multiuser application – sta segnando chiaramente il futuro del videogioco.3
L’aver citato i videogiochi attuali a fianco delle applicazioni di messaggistica virtuale, permette di delineare una serie di omologie strutturali estremamente significative per il discorso che stiamo conducendo. L’omologazione principale che si sta profilando nell’attuale universo mediatico è quella fra spettacolo e videogioco, e questo nel segno dell’interazione intesa come possibilità da parte del fruitore di non essere limitato al ruolo passivo di spettatore di un “intrattenimento” di qualche genere, ma di avere piuttosto la possibilità di parteciparvi attivamente e – in qualche misura, in verità sempre maggiore – di contribuire addirittura a generarlo. Questa nuova forma di fruizione – se ancora l’uso di tali strumenti può essere chiamato in tal modo – tende ad uscire dall’ambito tecnologico da cui è nata, per approdare alle residuali forme del classico spettacolo video-cinematografico (seppure ancora dominanti per gli appartenenti ad alcune fascie generazionali), come nel caso – ancora sperimentale – del cosiddetto “cinema interattivo”. Anche la televisione è evidentemente destinata ad approdare ad analoghe forme di “de-spettacolarizzazione” interattiva, anche e soprattutto nel caso della programmazione non di finzione, quella dei programmi di informazione e di discussione per esempio. Anche questa programmazione dovrà nel prossimo futuro prevedere un lato di “sfondamento” immersivo da parte dell’utente, il quale si abituerà sempre di più a concepire la comunicazione come “ambiente” da esplorare e nel quale interagire4.
Ma ogni esplorazione abbisogna di una traccia nell’ambiente dell’agente esploratore, in particolar modo quando tale esplorazione – come nel caso dei giochi elettronici multitutente – entra in relazione interattiva con un numero indefinito di altri utenti e con le loro analoghe esplorazioni; non può – come nel caso della solitaria fruizione televisiva – ridursi all’imperscrutabile sguardo individuale, alla invisibilità – non tracciabile – della visione soggettiva.
Occorre una traccia dell’esplorazione, esattamente come occorre un tracciatore sullo schermo e un corpo nel mondo. E tale traccia è l’avatar, individualità simbolica che collega (religo) due mondi, quello reale della natura e quello parallelo che si colloca (per ora) oltre i cristalli del monitor, in quell’altrove che è già stato definito l’aldilà catodico, infine divenuto praticabile per l’uomo che ha negato l’esistenza dell’aldilà ultramondano.
Proprio questo è il concetto basilare che occorre sottolineare: il venirsi a creare due mondi distinti, infinitamente distanti e assolutamente vicini nello stesso tempo, che l’avatar collega come il pontifex degli antichi collegava – quale “facitore di ponti” – il mondo al sovramondo.
Le nuove forme tecnologiche della comunicazione globale vedranno verosimilmente svilupparsi enormemente la tecnologia di costruzione e gestione di questi nostri agenti virtuali, che inoltre rappresentano una delle ricadute più significative della tecnologia di modellazione tridimensionale. Anche quando gli avatar tecnologici prendono il nome di bot (da robot) ad indicare i personaggi gestiti dall’intelligenza artificiale del calcolatore nei videogiochi immersivi in prima persona, il discorso non cambia: “profeti” extraterrestri, “avatar” pseudospirituali o alter-ego cibernetici, essi sono lì a dare corpo all’immaginario mitico-religioso dell’antichità, a soddisfare la nostra connaturata (direbbero gli indù, che l’avatar l’hanno prodotto come immagine linguistica) sete di trascendenza e – contemporaneamente – di trasfigurazione; ma riproposta ad un livello della realtà che verosimilmente non si colloca “al di là” dell’umano, bensì “al di qua”, in quell’universo dei numeri che, come pura quantità, sembra contrapporsi a quello caratterizzato dalla pura qualità, il quale solamente, secondo quanto ricordato da René Guénon, corrisponde a ciò che gli antichi definivano, propriamente, spirito.
Nel corso della storia siamo quindi passati da avatar intesa come manifestazione del divino, ad avatar come un doppio sociale, una maschera virtuale di una parte del nostro io, del nostro essere uomo. Ma è poi davvero così? Apparentemente i due significati del termine avatar potrebbero non relazionarsi tra loro, ma ad una visione più attenta il tutto potrebbe assumere una prospettiva. L’avatar viene usato per creare una personalità diversa da quella ordinaria: attraverso i videogiochi, il web, la Rete; creo un’immagine di me stesso che è idealizzata. Sono pur sempre io, ma come vorrei essere, privo di quelle insicurezze, paranoie e difetti che pensiamo di avere. Non credo di sbagliare nel dire che l’immagine virtuale è la manifestazione concreta del nostro io, la forma più pura di come siamo fatti interiormente, lontana dalle censure che, per ovvi motivi morali e non solo, tutti gli uomini sono costretti ad assumere nella vita di tutti i giorni. Nei videogiochi non è così, posso essere Io come voglio, in un certo senso ci si sente Padroni, il Dio del mondo nel quale vivo attraverso il mio avatar. Ecco quindi che ritorna la concezione dell’avatar come manifestazione divina, ma non solo. Si tratta anche di un’elevazione dell’essere uomo inteso come essere fragile e mortale; si solidifica la consapevolezza che nell’universo dei pixel posso atteggiarmi e fare ciò che voglio senza preoccuparmi delle conseguenze: proprio come un “Dio misericordioso” o un “Dio crudele”.