Mi si consenta, nella sera di questo 1994 così fatale per il nostro Paese e forse per il nostro Mondo 1, di fare alcune digressioni d’ordine sociologico e generale, approfittando dell’opportunità di parlare da questa tribuna privilegiata in quanto laterale e immaginaria, come laterale e immaginaria è l’Arte di cui si occupa. Vorrei parlare della Trasparenza e della Superficialità.
Mi si segua. Qualcuno fra i lettori sarà forse un collezionista di orologi Swatch, che così bene hanno rappresentato il divenire del senso stesso del tempo dell’occidente fine millennio: un tempo seriale, modulare, fondamentalmente ludico nella sua materialistica ineluttabilità. Quel collezionista saprà certamente che uno dei modelli più quotati oggi, in quanto geniale nell’idea e introvabile nell’originale -visto il successo ottenuto- è quello, uscito nei primi anni ‘80, la cui semplice caratteristica consiste nell’essere candidamente trasparente, di una trasparenza plastica che -di quel tempo convenzionale di cui l’orologio è segno e strumento- svela i meccanismi, gli ingranaggi, il motore interno. Da allora è stato -nel design- un susseguirsi di trasparenze di ogni genere, e proprio ieri sera, in tabaccheria, non ho saputo trattenermi dall’aquistare -io, inguaribile vojeur– l’ennesima versione di penna biro completamente trasparente.
Il piacere di vedere, capire -o credere di capire- come funziona il meccanismo è impagabile e radicale, ed è un piacere estetico -se non estesico– che probabilmente sta alla base della maggior parte dei fenomeni contemporanei, dal design alle prodezze della magistratura italiana; nella progettazione questa pratica segna verosimilmente il passaggio -come ultima attitudine della meccanica– alla smaterializzazione nell’informatica. Bene, mi si segua ulteriormente.
Fra le caratteristiche di quest’epoca ferita, che molti chiamano post-moderna, vi è ciò che F.Jameson -uno dei teorici di tale interpretazione- definisce una “nuova mancanza di profondità, che si estende anche alla ‘teoria’ contemporanea e a tutta una nuova cultura dell’immagine o del simulacro”; come dire che il senso stesso delle cose (delle idee, degli oggetti, della gente), tradizionalmente confinato in una zona profonda e difficoltosa da raggiungere (e comunque solo con l’ausilio delle attitudini più ponderose del pensiero e della speculazione) fosse affiorato in superficie, sfuggendo agli abissi del segreto del mondo e giungendo ad offrirsi, nella sua quasi pornografica nudità, all’indiscrezione dello sguardo più impertinente. Voglio dire che può sembrare non tanto che la profondità non esista più (come potrebbe smettere di esistere il mistero del mondo?), quanto che essa, liberatasi dalle zavorre dei codici e dei linguaggi prima teologici poi filosofici, sia semplicemente e delicatamente affiorata, sostituendosi a quella superficie che un tempo la nascondeva con la sua apparenza -appunto- superficiale. Si sia resa, cioè, trasparente.
Così può sembrare, e oggi in Italia così sembra -per riferirsi all’ambito ideologico- ai rivoluzionari della cosiddetta Seconda Repubblica, che ora contemplano nella loro disvelata crudezza meccanismi politici certamente già noti ai nostri padri, ma discretamente ignorati per semplice pudore. Una parola che, non so se avete notato, è effetivamente quasi caduta in disuso nel linguaggio corrente -le magie della superficialità e della trasparenza avendone disintegrato l’universo semantico di riferimento. Così può sembrare.
Un esempio massmediologico emblematico: il film The Crow, Il Corvo, di Alex Proyas. Chi ha visto il film avrà certamente notato nella sua struttura una fondamentale e quasi irriducibile ambiguità. Da un lato un apparato scenografico e iconografico -relativo all’universo estetico del grunge e dell’heavy metal– ricchissimo, sufficiente di per sé a garantirne il riconoscimento -credo- di una ottima qualità cinematografica; dall’altro un soggetto, una storia, che a prescindere dal fatto di essere stata tratta da un fumetto (ma anche il Batman di Burton era tratto da un fumetto…), risponde ai canoni più sgualciti della banalità e del perbenismo più borghese. Un film stupido, dunque? No, un film superficiale, in cui cioè quel che conta, l’essenza, il significato, la verità, è fuori, esteriore, trasparente. Non ridotta, ma dislocata in un’altra zona dello spazio concettuale. Sembra insomma che si debbano rifondare le stesse categorie semiologiche della denotazione e della connotazione, nonché tutti quei paradigmi interpretativi che hanno fatto la storia -non solo estetica- dell’occidente e della modernità.
Profonda superficialità, sapiente apparenza, ponderosa immediatezza. Termini contraddittori coi quali si potrebbe fare la storia dell’arte delle avanguardie- dell’informale e del concettuale, ad esempio. Ma paradossalmente, nel tempo della trasparenza di ogni cosa, criptica e segreta rimane solo l’arte, proprio lei, che per prima ha suggerito praticamente una coincidenza fra esterno ed interno, fra medium e messaggio.
Non so bene come concludere queste considerazioni, non so bene nemmeno se al considerare debba essere ancora riconosciuta -in questi tempi superficiali– un valore, tempi di generazioni politiche e culturali sapientemente ignoranti nel loro affidare ed esaurire la comunicazione di sé e delle proprie idee alla superficie profonda dell’esteriorità. Ci troviamo probabilmente ad una svolta epocale; a quando un Cristo trasparente?