Se la caratteristica linguistica principale delle nuove tecnologie, considerate dal versante della percezione visiva, consiste nella spazialità virtuale, vediamo come tale nuova forma dello spazio figurativo può essere interpretato, dal punto di vista della critica d’arte, e dunque consapevolmente utilizzato come registro comunicativo ed espressivo.
È evidente, per gli storici dell’arte e per gli studiosi della psicologia della percezione, come le tipologie della rappresentazione visiva siano strettamente connesse all’impianto culturale di una società, al suo modo di concepire la realtà e l’uomo nel suo contesto, insomma alla sua “visione del mondo”. In questo senso Erwin Panofsky definì -come noto- la prospettiva come “forma simbolica”, attribuendo ad essa un carattere di “astrazione” rispetto la realtà percettiva e al contempo un significato di “mappa” dei valori e delle istanze culturali dell’epoca in cui fu prevalentemente sviluppata, il Rinascimento europeo.1
Pino Parini, studioso di teoria della percezione, propone a questo proposito una serie di schemi classificatori2 per analizzare la prospettiva nel periodo che va dal tardo-romano al XVII secolo circa, “durante il quale la spazialità figurativa ha subìto quelle profonde modificazioni che l’hanno portata dalla complanarità dell’arte bizantina e romanica alla più pregnante resa volumetrica (…) del tardo Rinascimento”.
Ora, trasferendo gli impianti della storia critica dell’arte dal suo ambito specifico a quello più generale della “produzione d’immagini”, questi criteri possono esserci utili per comprendere il significato della “spazialità figurativa” elettronica.
In sintesi, Parini parla di sei tipi di prospettiva:
a- La prospettiva dissociata, esemplificativa della frantumazione prospettica tipica delle rappresentazioni tardo-antiche e dei primi secoli del cristianesimo, in cui all’interno di un’immagine formalmente unitaria “i singoli episodi delle rappresentazioni sacre e profane tendono ad essere rappresentati isolatamente come se ciascuno fosse calato in una propria nicchia spaziale”, e connessa -nella cultura- all’affermarsi di una concezione mistica del mondo.
b- La prospettiva inversa, di cui sono esempio i mosaici ravennati, in cui “la progressiva disarticolazione spaziale porta a smembrare la stessa scena in polarizzazioni prospettiche divergenti”, segno evidente di una visione totalizzante della trascendenza divina; la rappresentazione può spesso essere vista “sia come una scena risultante dalla giustapposizione di due visioni separate che si raccordano nel punto segnato dall’asse mediano” che l’attraversa, sia “come un ribaltamento prospettico stabilito dalle linee di profondità che, anziché concorrere verso il naturale punto di fuga all’orizzonte, convergono sul davanti”.
c- La proiezione assonometrica, consistente in un “particolare accorgimento antiprospettico” a cui si ricorre frequentemente nel periodo romanico, in cui “si realizza la più decisa ed integrale affermazione antiprospettica intesa come negazione della corporeità di tipo naturalistico”; l’autore aggiunge che “è interessante notare come la rappresentazione assonometrica, mostrando un piano in posizione centrale rispetto l’osservatore e una visione laterale presentata obliquamente con linee fra loro parallele, permette di suggerire la tridimensionalità dell’oggetto col massimo possibile di complanarità”. Per inciso si può inoltre notare come tale resa “equilibrata” fra rappresentazioni dell’immanenza (il mondo) e della trascendenza (Dio), sia tipica anche della maggior parte delle culture figurative tradizionali d’oriente.
d- Lo schema definito spina di pesce o asse di fuga, in cui le linee ortogonali “dispongono di autonomi punti di convergenza dislocati a diverse altezze”, che è essenzialmente “intermedio fra la rappresentazione assonometrica e quella prospettica del punto di fuga a cui si giungerà per gradi” e costituisce “l’impianto tendenzialmente prospettico di molte opere di Giotto (…)”.
Ma sono gli ultimi due schemi proposti da Parini che ci sono particolarmente utili:
e- La prospettiva centrale, “in cui le linee concorrono in un unico punto all’infinito, è una sintesi di razionalità e trascendenza; è l’immagine di un mondo retto dalle leggi divine ma frequentato da un’umanità in cui cominciano a pulsare le passioni”.
L’umanesimo -possiamo aggiungere con Panowsky- trova in questo tipo di prospettiva la propria forma simbolica eccellente: l’uomo al centro del mondo col suo punto di vista, contestualizzato in un ambiente che nella rigorosa simmetria lascia trasparire la legge divina aristotelicamente intesa come ragione, e nello spazio razionale dei piani giustapposti la consapevolezza di uno spazio che è corpo e di un tempo che è -nei meccanismi di vicinanza e lontananza- storia.
f- Schema del punto di fuga laterale, rintracciabile in opere come L’ultima cena del Tintoretto che diventa così “emblematica di quel processo di trasformazione della spazialità figurativa che avrà poi i più importanti sviluppi nell’epoca barocca, coinvolgendo, insieme alle più ardite e geniali soluzioni prospettiche, le problematiche della luce e del movimento”. “(…) il punto di fuga è spostato sulla destra o sulla sinistra; (…) il fascio di linee convergenti non risulterà più simmetrico per cui la veduta, disposta diagonalmente, acquisterà un notevole effetto di dinamismo”.
Il resto, potremmo dire, è storia dell’arte recente; dopo la rivoluzione barocca e manierista che -ricordiamolo- coinvolge nella resa prospettica le problematiche della luce ma particolarmente del dinamismo e del movimento, l’occidente trova la sua succesiva rivoluzione della rappresentazione visiva nelle avanguardie a cavallo del Novecento, che condurranno infine al termine della ricerca sulla resa natruralisticamente prospettica.
Ma surrettiziamente, alla fine del secolo e del millennio appena trascorsi, il discorso sulla prospettiva -interrotto dalle avanguardie storiche- rinasce nell’universo delle nuove tecnologie, le quali certamente risentono delle influenze di quei media come la fotografia, il cinema o la televisione che si frappongono -nella cultura occidentale- fra esse e l’antichità ma che -almeno a tutt’oggi- si manifestano in un ambito che può ancora essere ragionevolmente definito quello della “spazialità figurativa”; anche se il supporto non è più la tavola di legno o la parete preparata ad affresco ma un monitor televisivo. Supporto che –mutatis mutandis– influenza col suo specifico tecnologico la corrispondente produzione, la quale a sua volta è specchio di un mondo “immaginato”, potremmo dire riflesso, diversamente, e, nella logica cara a McLuhan, di un uomo che cambia il mondo con la tecnologia che a sua volta cambia l’uomo.3
È quindi sul supporto digitale video-ludico che dopo trecento anni si sviluppa un nuovo tipo di resa prospettica, che prende le mosse proprio dal dinamismo del barocco e che -lungi ancora una volta dall’essere riproduzione della percezione naturale- diventa forma simbolica della post-modernità: la possiamo chiamare prospettiva immersiva. Essa non si dà più come superficie illusoria, ma come ambiente navigabile, e come tale è progettata e prodotta, possiamo dire “dipinta”.
Per interpretare il valore simbolico di ciò che sembra semplicemente la conseguenza di uno sviluppo puramente tecnologico (quello dei microprocessori che hanno incredibilmente incrementato la possibilità di calcolo e quindi la capacità di restituire sullo schermo di un semplice PC la resa ottica di un movimento virtuale che avviene all’interno di un ambiente numerico), possiamo muovere dalla filosofia contemporanea. Citando a caso e semplificando forse un po’ più del dovuto, nella teorizzazione del cosiddetto “pensiero debole” si afferma che nell’universo della pluralità culturale contemporanea non possono esistere filosofie “forti”, cioè visioni del mondo che individuino un paradigma dei valori e delle categorie interpretative definitivo, com’è accaduto nel passato.4
Dal punto di vista estetico, furono lo svilupparsi in Europa nel corso del Rinascimento delle filosofie umanistiche, che collocavano le idee di “uomo” e di “storia” al centro del mondo, a produrre l’elaborazione di tecniche di rappresentazione come quella della “prospettiva centrale”.
Nel contesto socio-culturale post-moderno, dove anche grazie allo sviluppo dei media elettrici l’incontro fra “diversi” è la norma, e dove la stessa scienza afferma che il concetto di “relatività” è essenziale alla formulazione di “verità” che hanno solo un valore temporaneo e passeggero, anche l’affermazione estetica di un punto di vista principe viene ad essere fortemente messa in crisi. L’unico punto di vista coerente nel tempo della relatività, è un punto di vista calato nel contesto delle relazioni, è quello di una filosofia –e dunque di un’immagine- “in situazione”.
E se volessimo immaginare una sorta di forma visiva e percettiva che sia simbolica di tale “condizione post-moderna”, quale miglior immagine del movimento in situazione della realtà virtuale così ben rappresentata nei videogiochi in 3D in prima persona?
In esso viene conservata la traccia simbolica del soggetto moderno e “rinascimentale” (il “punto di vista” individuale contrapposto alla visione complanare dell’antichità pre-moderna) da cui l’occidente -che elabora tali tecnologie immersive- proviene; “punto di vista” sviluppato -potremmo dire “giocato”- nell’idea di movimento, che ha segnato tutto il periodo barocco, ma finalmente lanciato nel viaggio-situazione esistenziale, rappresentato dal contesto di gioco.
L’archetipo del “viaggio” inteso come movimento per definizione in situazione (correlato ad un’idea di provenienza che simboleggia le proprie origini culturali, affettive od archetipiche) e che contemporaneamente è anche immagine del compimento e della fine -ciclica, sempre sospinta in avanti- del viaggio stesso (pensiamo al ritorno ad Itaca di Ulisse), è dominante non solo nella grande letteratura contemporanea, ma anche e soprattutto nei risvolti più popolari ed effettivamente “contestuali” della cultura di massa. Tale viaggio narra dell’identità in movimento del soggetto post-moderno, sentita come irraggiungibile -o comunque raggiungibile solo parzialmente e metaforicamente- e veramente realizzata soltanto nella relativa, transitoria, contestualità della navigazione.
Tra i testi che ho consultato studiando le tecnologie multimediali mi ha stupito leggere come i filosofi della Grecia antica facciano un chiaro riferimento ai contesti spaziali “multimediali” (come nel Fedro o il discorso di Diotima sull’Eros). Quando Platone o Plotino dicono che il bello, proprio perché non può essere circoscritto in un determinato oggetto sensibile, si manifesta in una molteplicità del tutto, io ci vedo uno spazio multimediale. Di questo parla anche Maldonado in un suo libro, ormai datato, ma non ho trovato risposte alle sue provocazioni. Maldonado si esprime in modo critico ma oggettivo alle possibilità che suggeriscono le tecnologie e si rivolge agli studiosi, quali esteti e semiologi, e li invita ad annullare quel distacco che hanno nei confronti della contemporaneità. Sto facendo molta fatica a trovare testi che soddisfino queste curiosità, soprattutto da un punto di vista semiotico e sulla percezione. Visto che lei appunto in questo articolo parla proprio di percezione, mi può consigliare una bibliografia? E secondo lei, come mai chi si occupa di storia dell’arte fa ancora fatica a teorizzare le tecnologie multimediali?