≡ Menu
Scarica il PDF

 

 

There is a war between the rich and poor
There is a war between the man and the woman.

Leonard Cohen

Così cantava molti anni fa un cantautore americano che nella seconda metà dello scorso secolo ha interpretato fedelmente lo spirito della rivoluzione politica e culturale di quegli anni, fortemente connotata ad un’ideologia della “rivendicazione dei diritti” riferita ad un grande numero di gruppi sociali considerati come “minoranze”. Alla luce di una analisi della società di ispirazione fondamentalmente marxista – allora dominante, fra la maggioranza degli artisti e degli intellettuali di tendenza – tali “minoranze” risultavano essere sottoposte ad un potere politico ed economico che le relegava in una condizione di assoggettamento a qualche – diretta od indiretta – forma di “sfruttamento”: sfruttamento degli appartenenti alle classi superiori nei confronti di coloro che facevano parte di quelle più popolari o – a cascata – sfruttamento da parte di chi deteneva – o era considerato detenere – una qualche forma di “potere” all’interno di una qualsiasi struttura sociale, verso chi a tale presunto potere risultava in qualche modo subordinato. A questa interpretazione delle dinamiche sociali, non sono certo sfuggite quelle interne a ciò che era considerata allora la cellula stessa della società , la famiglia.

“Sfruttamento”, dunque, non solo dei “ricchi” nei confronti dei “poveri” o dei “padroni” nei confronti dei “proletari”, ma anche dei padri – considerati da una certa critica alla stregua di padroni – nei confronti dei figli, omologati in questa prospettiva alla condizione sociale di dipendenti; ed – infine – sfruttamento da parte degli uomini – “maschilisti” detentori del patrimonio – nei confronti delle donne, ridotte, con la complicità dell’istituzione tradizionale del matrimonio, alla “mera” funzione di femmine fattrici. Nel quadro di tale impianto teoretico, il concetto di “sfruttamento” travalica evidentemente i suoi legittimi termini economici, per riferirsi anche – e talvolta soprattutto – alla sfera psicologica e relazionale degli individui componenti la società, all’interno della quale un presunto gioco di potere era considerato caratterizzare le dinamiche interpersonali del mondo “borghese”, sullo sfondo di una strategia del profitto morale oltre che materiale.

Insomma, in tale prospettiva, il principio dialettico dell’analisi politica, che individua il rapporto fra lo sfruttato e lo sfruttatore, si riflette ben presto su ogni altro ambito sociale, che è originariamente caratterizzato – in definitiva – dai residui di ciò che, nel tessuto tradizionale della società occidentale, fu innanzitutto la bipolarizzazione delle funzioni individuate secondo l’appartenenza al genere maschile o femminile della persona, e, in secondo luogo  al rapporto subalterno di parentela che legava al genitore (segnatamente maschio e padre) il figlio. Tale interpretazione, viene poi applicata a categorie più evolute del contratto sociale, come nel caso della subalternità caratterizzante il rapporto fra discepolo e maestro o quella che si sviluppa fra fedelesacerdote. Sui poli “attivi” di tali binomi viene surrettiziamente proiettata una sorta di “colpa metastorica”, che psicoanaliticamente diventerà “senso di colpa” collettivo, collegata proprio alla logica del profitto e della prevaricazione che ne caratterizzerebbe la natura sociale. Ai poli “passivi” viene  – viceversa – fatto narrativamente introiettare un ardente desiderio di affrancamento da tale condizione, che si esprime nella rivendicazione del libero diritto dell’individuo di vivere un’esistenza autonoma e non assoggettata ad alcun autoritarismo. I rappresentanti di tali gruppi sociali, vengono quindi idealizzati come emblema di ogni minoranza che sarebbe, in qualche modo, vittima di qualche sorta di “sfruttamento”, economico, morale o culturale, da parte di una maggioranza prevaricatrice che si arroga il diritto di proclamarsi superiore e di dettare le “regole del gioco”. La dialettica politica postmoderna, relativa alle antitetiche designazioni di  omosessualità ed eterosessualità, riflette d’altronde un’analoga lettura critica.

Alla fine degli anni ‘60 del novecento, nelle idee diffuse dalla cultura politica di massa, nel cinema, nella letteratura, nell’arte, il mondo intero si divide quindi bruscamente in due: da una parte, il potere, oligarchico e sfruttatore; dall’altra, la minoranza (spesso più qualitativa che quantitativa) vittima di una metastorica opera di sfruttamento. Questa spaccatura riguarda innanzitutto la società nel suo complesso (ricchi e poveri, classe dirigente e classe operaia) e le sue interne parti costitutive (chiesa e fedeli, insegnanti e studenti); ma – come si diceva – configura anche una minuziosa messa in crisi dell’assetto sociale nella sue parti fondative, come appunto è caso della famiglia, avendo in vista specificatamente il suo prototipo – forse archetipico – cristiano, patriarcale e monogamico così come appare nella tradizione religiosa occidentale. Ma dai suoi detrattori, la famiglia è vista come l’embrione da cui nascono i rapporti di potere che poi si sviluppano e si radicano nella società nel suo complesso, della quale peraltro essa risulta specchio fedele. Così, nella dialettica dei rapporti fra marito e moglie e fra padre e figli, scoppiano ben presto i conflitti che poi, nella grande forma simbolica della guerra fra uomini e donne, ha alimentato le più radicali rivoluzioni culturali della fine del novecento e le loro narrazioni, relative per esempio all’introduzione del divorzio o dell’aborto legale, dallo sviluppo delle quali deriva – più o meno direttamente – l’intera condizione contemporanea della socio-cultura occidentale.

 

 

Riassumendo, la famiglia, così come era vissuta tradizionalmente in occidente, viene messa in crisi perché accusata di essere – da un lato – il luogo di condizionamento che produce l’esercizio del potere da parte delle componenti più forti della società nei confronti di quelle più deboli, che in tal modo vengono asservite proprio sulla base psicologica dell’abitudine all’obbedienza ed al rispetto incodizionato nei confronti di mariti e genitori e che di conseguenza forma individui sottomessi e pronti ad accettare in ambito sociale analoghe dinamiche basate sullo sfruttamento economico; dall’altro, di essere fondata su di una tradizione religiosa – il cristianesimo – il cui autentico scopo sarebbe stato proprio quello di preparare e legittimare tali pratiche politiche, secondo la più canonica lettura comunistica della storia.

La famiglia è cioè interpretata come l’anello centrale ed indispensabile di una catena di potere finalizzata alla conservazione dei privilegi, fondata sulla logica religiosa dell’asservimento dell’uomo nei confronti della divinità e che conduce direttamente all’asservimento del proletario nei confronti del padrone. La tradizione religiosa stessa viene interpretata come parte strategica di una lotta di potere finalizzata, attraverso l’istituzione delle gerarchie sociali e famigliari, alla creazione e al mantenimento delle classi privilegiate.

Nel delinearsi di questa analisi, che indiscutibilmente caratterizza la maggior parte delle filosofie sociali del novecento, due condizioni antropologiche risultano sociologicamente protagoniste: l’essere giovane e l’essere donna.

La donna ed il giovane, vale a dire la moglie ed il figlio nel contesto della famiglia patriarcale tradizionale, diventano i termini metonimici e simbolici di ogni altra categoria sociale modellata su tale impianto gerarchico. Questo è il motivo per il quale ogni politica di “liberazione” che attraversa la seconda metà del novecento, vede innanzitutto nel riscatto di queste due figure sociali il tragitto che conduce alla libertà e all’uguaglianza politiche. Liberazione dal vincolo della gerarchia all’interno della famiglia e della società, che conduce all’uguaglianza delle figure tradizionalmente differenziate – nei compiti e nei ruoli – di tale ordinamento1. Di conseguenza, ogni sorta di rivendicazione del diritto sociale, muove innanzitutto dal moto di emancipazione da parte della moglie e del figlio nei confronti del padre.

Ma un aspetto di tale processo è particolarmente degno di nota: è in tal modo che si innesca anche una graduale – e difficilmente reversibile – rarefazione (ed infine scomparsa quasi totale) della figura sociale dell’uomo culturalmente – e forse biologicamente – inteso: nella famiglia patriarcale, il figlio maschio è infatti sottoposto all’obbedienza nei confronti del padre innanzitutto perché destinato a prenderne il posto, in un percorso di crescita rivolto piuttosto all’affrancamento – da parte del figlio – dalla dipendenza originaria nei confronti della madre, nella prospettiva di un processo formativo rivolto alla graduale – e totale – differenziazione dell’uomo dalla donna, cioè del principio maschile dal principio femminile all’interno della società.

Tutto ciò è d’altronde espresso chiaramente dai riti tradizionali di iniziazione dei giovani maschi al mondo degli adulti, giovani che fino ad allora restano confinati – in quanto figli della madre (non ancora uomini adulti e dunque non ancora veramente figli del padre) – nell’ambito domestico, femminile e familiare. Il processo di emancipazione dal padre condurrebbe viceversa – in tale ottica tradizionale – ad un permanere indefinito del figlio, anche se adulto, nel “dominio” della madre: si tratterebbe della differenza – quindi – fra il diventare, crescendo, veri figli del padre, o, viceversa, del permanere indefinitamente – anche per i maschi – nella condizione infantile di figli della madre. In questo senso, figli della madre si nasce, figli del padre si diventa. E’ logico rilevare di conseguenza che, in tale prospettiva tradizionale, l’uomo occidentale contemporaneo rimane eternamente figlio della madre, e – in quanto tale – oltre a diventare l’attivista politico di una spirale indefinita di emancipazione universale, rappresenta anche la fenomenologia principale di una sorta di evidente femminilizzazione del mondo.

Pur avendo evidentemente radici lontane, nelle ideologie illuministiche e rivoluzionarie dei secoli precedenti, l’autentica e definitiva emancipazione delle figure sociali della “donna” e del “giovane” si è attuata in occidente proprio attraverso la coalizione della “moglie” con il “figlio” contro il “padre”, e questo avviene solo nella seconda metà del novecento con la crisi della cultura patriarcale, realizzata con la legittimazione e la complicità di una nuova cultura umanistica improntata principalmente al marxismo ed alla psicoanalisi2. Sono gli anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, che hanno per questi motivi visto rinnovare in chiave liberista il mito collettivo (e la corrispondente categoria concettuale) di “gioventù”3, come si è espresso – e continua ad esprimersi – nella cultura popolare con la nascita e lo sviluppo della rivoluzione musicale del rock’n’roll o con i vari movimenti per l’emancipazione della donna, fenomeni che ben presto si sono coerentemente coagulati intorno alle questioni di “genere” relative a ciò che è chiaramente indicato dall’espressione mediatica “orgoglio omosessuale”.

Note
1. Ancor oggi nella retorica politica, malgrado grandi mutamenti abbiano avuto luogo (fino al punto di poter parlare degli albori di una sorta di neo-matriarcato), queste sono ancora le figure retoriche di riferimento nelle politiche populiste, quando – per esempio – si debba parlare di lavoro o di occupazione.
2. Vedi il saggio di A. Mitscherlich, Verso una società senza padre, Milano, Feltrinelli, 1977.
3. Mito moderno esclusivo fino ad allora, sebbene in una prospettiva socio-politica completamente diversa, solo del Fascismo.
{ 5 commenti… (Lasciane uno) }
  • Sara Carraro 24 Agosto 2016, 18:45

    Molto interessante.
    La parte del paragrafo in cui si afferma che l’uomo occidentale contemporaneo sembra rimanere “eternamente figlio della madre” e che stiamo assistendo ad una “evidente femminilizzazione del mondo”, ha riaperto nella mia mente una questione sulla quale ho riflettuto già in passato e che riguarda la tecnologia, questione che forse può aggiungere spunti di riflessione riguardo agli argomenti di questo articolo.
    perché Siri e la maggior parte dei navigatori satellitari – quindi la tecnologia che “ci da degli ordini” – hanno una voce femminile?
    Lessi che per alcune zone del mondo i primi navigatori dovettero avere una voce prettamente maschile, perché sentirsi dare ordini da una donna infastidiva la maggior parte degli uomini di alcune culture, ma nella maggior parte dei casi gli assistenti vocali sono voci femminili, da Apple con Siri, a Microsoft con Cortana.
    Quando penso alla voce scelta da Kubrick per il suo Hal 9000 in “2001: A Space Odyssey”, che era maschile, mi chiedo il perché della innumerevoli discussioni negli anni riguardo alla presunta omosessualità della macchina.
    Perché la maggior parte delle voci della tecnologia ai suoi inizi e tutt’ora è femminile? La tecnologia sta cambiando la nostra cultura, o viceversa, e la questione di genere è centrale anche in essa, componente della nostra vita sociale ma comunque disumanizzata. Come si sta adattando la tecnologia – disciplina in continua evoluzione – a questa femminilizzazione del mondo?

    • Alice Biazzi 12 Settembre 2016, 14:39

      Avevo notato le tante voci femminili dei supporti digitali ma non avevo mai riflettuto su il perché della scelta. Nella maggior parte dei dispositivi la voce si può cambiare, come si fa per le suonerie, ma si sentono comunque più voci di donna. So che hanno provato a fare delle versioni anche con i personaggi famosi ma viene sempre preferita quella tranquilla voce femminile, anche se non bella come quella di Scarlett Johansson in Her. Ho letto che la traduzione di Siri è: bella vittoria/consigliere di bella vittoria. Non sono un esperto di sound, comunicazione o percezione ma credo che una delle principali motivazioni che portano un utente a scegliere la voce femminile piuttosto che quella maschile sia una questione sensoriale, forse di tonalità del suono. Sembra che sia donne che uomini preferiscano ascoltare una macchinosa voce femminile piuttosto che una macchinosa voce maschile che gli dice quello che devono fare.
      Che non sia un fenomeno legato alla cultura del cinema e della radio? L’attitudine dei media è quella di avere come intermediari giornalistici, televisivi, pubblicitari, voci da uomo per alcuni prodotti/contesti e donne per altri tipi di situazione. Come mai la voce della donna è il medium preferito anche in queste forme di comunicazione? Dalle pubblicità casalinghe degli anni ’50 alla voce che ci fa preferire un app piuttosto che un’altra che cosa è cambiato?

      • Sara Carraro 22 Settembre 2016, 21:08

        Aggiungo carne al fuoco.
        Ho letto diversi studi che dicono quanto la voce femminile sia più difficile da comprendere perché più complessa di quella maschile. A quanto pare la voce delle donne ha dei toni più complessi che coinvolgono tutta l’area uditiva del cervello e ci sono differenze biologiche riguardo a corde vocali e forma della laringe femminile (prof Michael Hunter, dell’Università di Sheffield (UK). I luoghi comuni parlano di quanto spesso la voce delle donne sia fastidiosa per gli uomini (anche se non penso sia un problema di voce, ma sociale-relazionale, o culturale come dici anche tu).
        Un’altro studio psichiatrico che mi sembra interessante riguarda le voci allucinatorie, che sembrerebbero essere prettamente maschili. Alcuni psichiatri pensano che le allucinazioni uditive si generino quando il cervello si attiva spontaneamente, creando la falsa percezione di una voce e che quindi siano voci maschili, perché la voce femminile è più complessa e il cervello trova molto più difficile trovarne una maschile. Interessante, no?
        Questa ricerca potrebbe anche spiegare perché in generale le voci femminili sono considerate più chiare delle voci maschili.
        Ciò potrebbe essere connesso al fatto che le voci femminili vengono reinterpretate nella parte uditiva del cervello, quindi vengono più facilmente decodificate.

        • Alice Biazzi 26 Settembre 2016, 9:34

          Davvero interessante la questione delle voci allucinatorie, proverò ad informarmi. Proseguendo queste riflessioni e continuando ad utilizzare il cinema per avere dei riferimenti, torno a Kubrick. Oltre al livello sensoriale, di percezione dei suoni, credo che potremmo far rientrare le voci tra gli elementi che vengono studiati in prossemica, una sorta di prossemica vocale. Hal 9000 ha sì una voce maschile ma finisce per sterminare l’equipaggio. In tutte le situazioni che stiamo citando l’utente a cui si fa riferimento è di sesso maschile e, anche in questo caso, la voce del personaggio cinematografico scelta come mezzo comunicativo avverso è maschile. In antropologia è stato dimostrato come le distanze fisiche, il posizionamento e le relazioni dei corpi in uno spazio siano molto diversi tra i sessi e per culture. La donna non viene vista quasi mai come una minaccia, quindi, ha più possibilità di avvicinarsi fisicamente ad una persona. Siri e Cortana sono nelle nostre tasche e la voce dei bancomat maneggia i nostri soldi. Una voce maschile in un contesto “sensibile” proprio non mi viene in mente. Credo che questo discorso si ricongiunga al nostro e potrebbe essere interessante scoprire che tipo di assistente vocale viene preferito dalle culture più lontane dalla nostra.

      • Maurizio 12 Dicembre 2016, 9:31

        La risposta è ovvia ed è in sintonia con l’articolo: la voce femminile è la voce della mamma. Più in generale, non si tratta di “femminilizzazione” come dice l’articolo, ma di ‘mammizzazione’, che è tutt’altro che emancipazione perché, psicologicamente, rivela la dipendenza dal figlio. Su questo, temo, non si è riflettuto abbastanza – o per niente.

Lascia un commento