Una volta chiesi a Mikiko, una mia carinissima amica giapponese, se per caso avesse portato con sé -per il periodo di permanenza in Italia- dei fumetti da casa. Un pò stupita per la domanda che evidentemente considerava scontata, in un italiano discutibile mi rispose più seria che mai: “certo, io non vivo senza Manga“. Poi aggiunse che suo fratello le aveva appena spedito gli ultimi albi di alcuni dei suoi personaggi preferiti.
Mikiko è una studentessa intelligente e smaliziata, la sua affermazione è certamente da considerarsi emblematica del modo in cui le ultime generazioni fruiscono di quel particolare tipo di narrazione mitologica che noi chiamiamo fumetto, gli americani comics e i giapponesi -appunto- Manga; dicono che a Tokio le sale d’attesa, le stazioni, i vagoni della metro e tutti i luoghi che vedono un grande passaggio di persone, abbondino di Manga letti ed abbandonati per i prossimi passanti, ed è noto come il fenomeno della gigantesca diffusione di questi fumetti costituisca in quel paese un rilevante problema sociologico.
A parte -comunque- i fenomeni estremi di quell’estremo occidente che è il Giappone, anche da noi l’industria del fumetto sembra non conoscere crisi: casi come il successo di Dylan Dog -quasi un milione di copie vendute al mese- sono tutt’altro che isolati. In Italia solo il cosiddetto fumetto d’autore sta attraversando una certa recessione, quel tipo di fumetto che sulla scia dell’approccio intellettuale al genere -inaugurato da Umberto Eco e Oreste Del Buono alla fine degli anni ’60 con la fondazione di Linus– ha visto avvicendarsi una serie di testate (da Frigidaire a Nova Express) che coraggiosamente e spesso con successo hanno rivendicato per questo moderno racconto per immagini la dignità del prodotto artistico.
Una dignità conquistata difficoltosamente, perché dall’invenzione della fotografia fino agli ultimi sviluppi delle tecnologie elettroniche di trattamento dell’immagine, abbiamo assistito ad un progressivo ed inesorabile allontanamento dell’arte occidentale dalla produzione di immagini mimetiche, veristiche e naturalistiche. Questo con la conseguenza, peraltro, che il sistema di comunicazione non ha quasi più avuto bisogno di abilità come il “saper disegnare”, le quali -anzi- hanno cominciato ad essere considerate squalificanti per l’autentica ricerca estetica; ma nel caso del fumetto, che produce racconti per immagini, ci troviamo evidentemente di fronte ad uno dei pochi casi superstiti in cui l’evoluzione dei linguaggi estetici non ha reso obsoleta l’immagine realistica e verosimigliante –iconica, secondo la lezione di Pierce- anche se talvolta la ricerca ha seguito direzioni diverse.
Inoltre, per risultare efficace, l’icona fumettistica deve riportare l’impronta stilistica del suo autore ed essere in qualche modo prodotta “artigianalmente”; malgrado i tentativi fatti, un fumetto totalmente realizzato con l’ausilio del computer non avrebbe senso né fascino, così come non avrebbe senso -chessò- un ritratto completamente digitale: il primo sarebbe come un fotoromanzo, il secondo come una fotografia.
I narratori a fumetti sembrano così essere rimasti gli unici “artisti” a cui è concesso -più che agli illustratori e in barba a concettuali e tecnofili- l’uso del disegno tradizionale reso manualmente: veri eredi dunque, nel mondo contemporaneo, dei pittori rinascimentali e delle loro tecniche di rappresentazione e modellazione (anche filosofica) del mondo visibile. Non mi sembra poco.
Anche perché, mutatis mutandis, è innegabile che le saghe a fumetti -da quelle americane dei super-eroi a quelle giapponesi dei Manga– rivestano all’interno delle nostre culture di massa (che -non dimentichiamolo- rappresentano il corpo sensibile, estetico, del Culto Contemporaneo) un fortissimo valore mitopoietico, in termini di processi identificatori e di sistemi collettivi di rappresentazione.
Per tutti questi motivi, qui ad Alphacentauri abbiamo deciso di occuparci analiticamente anche di fumetto, inaugurando dal prossimo numero una rubrica (più o meno fissa) intitolata Kriptonite.
Vorremmo in questo modo cercare di disegnare -più che delineare- la mappa di quella Grande Telenovela che è la fine (virtuale) del secondo millennio D.C., seguendo la traccia delle seduzioni esoteriche di Dylan Dog, dell’ olimpo improbabile di Thor o delle mantiche apocalittiche di Radar.
Con la guida spirituale del (per ora ancora) defunto Superman, che -guarda caso- proprio della D.C. Comics è stato “martire” e “profeta”.