Vi sono riti e feste, sussistenti ormai solo per consuetudine nel mondo moderno, che si possono paragonare a quei grandi massi che il movimento delle morene di antichi ghiacciai ha trasportato dalla vastità del mondo delle vette giù, fin verso le pianure.
Tali sono, ad esempio, le ricorrenze che come Natale ed anno nuovo rivestono oggi prevalentemente il carattere di una festa familiare borghese, mentre esse sono ritrovabili già nella preistoria e in molti popoli con un ben diverso sfondo, compenetrate da un significato cosmico e universale.
Di solito, passa inosservato il fatto che la data del Natale non è convenzionale e dovuta solo ad una particolare tradizione religiosa, ma è determinata da una situazione astronomica precisa: è la data del solstizio d’inverno. E proprio il significato che nelle origini ebbe questo solstizio andò a definire, attraverso un adeguato simbolismo, la festa corrispondente. Si tratta, tuttavia, di un significato che ebbe forte rilievo soprattutto in quei progenitori delle razze indoeuropee, la cui patria originaria si trovava nelle regioni settentrionali e nei quali, in ogni caso, non si era cancellato il ricordo delle ultime fasi del periodo glaciale.
In una natura, minacciata del gelo eterno l’esperienza del corso della luce del sole nell’anno doveva avere un’importanza particolare, e proprio il punto del solstizio d’inverno rivestiva un significato drammatico che lo distinguerà da tutti gli altri punti del corso annuale del sole. Infatti, nel solstizio d’inverno, il sole, essendo giunto nel suo punto più basso dell’eclittica, la luce sembra spegnersi, abbandonare le terre, scendere nell’abisso, mentre ecco che invece essa di nuovo si riprende, si rialza e risplende, quasi come in una rinascita. Un tale punto valse, perciò, nei primordi, come quello della nascita o della rinascita di una divinità solare.
Nel simbolismo primordiale il segno del sole come «Vita», «Luce delle Terre», è anche il segno dell’Uomo. E come nel suo corso annuale il sole muore e rinasce, così anche l’Uomo ha il suo «anno», muore e risorge. Questo stesso significato fu suggerito, nelle origini, dal solstizio d’inverno, a conferirgli il carattere di un «mistero». In esso la forza solare discende nella «Terra», nelle «Acque», nel «Monte» (ciò in cui, nel punto più basso del suo corso, il sole sembra immergersi), per ritrovare nuova vita. Nel suo rialzarsi, il suo segno si confonde con quello sia dell’ «l’Albero» che sorge («l’Albero della Vita», la cui radice è nell’abisso), sia dell’ «Uomo cosmico» con le «braccia alzate», simbolo di resurrezione. Con ciò prende anche inizio un nuovo ciclo, l’ «anno nuovo», la «nuova luce».
Per questo, la data in quistione sembra aver coinciso anche con quella dell’inizio dell’anno nuovo (del capodanno). Questa è la tesi, fra l’altro, di un ardito studioso dell’alta preistoria nordico-atlantica, H. Wirth. Al segno del solstizio, del natale solare, avrebbero fatto seguito quelli della cosiddetta «serie sacra», che scandiva i diversi periodi dell’anno.
È da notare che anche Roma antica conobbe un «natale solare»: proprio nella stessa data, ripresa successivamente dal cristianesimo, del 24-25 dicembre essa celebrò il Natalis invicti, o Natalis Solis invicti (natale del Sole invincibile). In ciò si fece valere l’influenza dell’antica tradizione irànica, da tramite avendo fatto il mithracismo, la religione cara ai legionari romani, che, per un certo periodo, si disputò col cristianesimo il dominio spirituale dell’Occidente. E qui si hanno interessanti implicazioni, estendendosi fino ad una concezione mistica della vittoria e dell’imperium. Come invincibile vale il sole, per il suo ricorrente trionfare sulle tenebre. E tale invincibilità, nell’antico Iran, fu trasferita ad una forza dall’alto, al cosiddetto «hvarenô». Proprio al sole e ad altre entità celesti, questo «hvarenô» scenderebbe sui sovrani e sui capi, rendendoli parimenti invincibili e facendo sì che i loro soggetti in essi vedessero uomini che erano più che semplici mortali.
Ed anche questa particolare concezione prese piede nella Roma imperiale, tanto che sulle sue monete, spesso ci si riferisce al «sole invincibile», e che gli attributi della forza mistica di vittoria dianzi accennata si confusero non di rado con quelli dell’Imperatore.
Tornando al «natale solare» delle origini, si potrebbero rilevare particolari corrispondenze in ciò che ne è sopravvissuto come vestigia, nelle consuetudini della festa moderna. Fra l’altro, una eco offuscata è lo stesso uso popolare di accendere sul tradizionale albero delle luci nella notte di Natale. L’albero, come abbiamo visto, valeva, infatti, come un simbolo della resurrezione della Luce, di là dalla minaccia delle notte: donde anche le luci da accendere in esso. Anche i doni che il Natale porta ai bambini (spesso appesi, tali doni, all’Albero illuminato) costituiscono una eco remota, un residuo morenico: l’idea primordiale era il dono di luce e di vita che il Sole nuovo, Il «Figlio», dà agli uomini. Dono, da intendersi in un senso sia materiale, sia spirituale, il convergere dei due significati essendo una conseguenza dell’accennata situazione dell’alta preistoria, per via della quale il rialzarsi della luce valse come una liberazione dall’incubo di una gelida notte per la terra e per la vita degli uomini.
Avendo ricordato tutto ciò, sarà bene rilevare che batterebbe una strada sbagliata chi volesse vedere, qui, una interpretazione degradante, tale da trascurare il significato religioso e spirituale che ha il Natale da noi conosciuto, riportandolo all’eredità di una religione naturalistica e, per ciò stesso, primitiva e superstiziosa. Si tratta, invece, di un ampliamento degli orizzonti e dell’integrazione di alcuni significati fondamentali in uno sfondo cosmico.
D’altronde, una «religione naturalistica» vera e propria non è mai esistita, se non nella incomprensione e nella fantasia di una certa scuola di storia delle religioni in auge nel secolo scorso ma ormai del tutto discreditata. Oppure è esistita in qualche tribù di selvaggi fra i più primitivi. L’uomo delle origini di una certa levatura non «adorò» mai i fenomeni e le forze della natura semplicemente come tali, egli li adorò solo in quanto, e per quel tanto, che essi valevano per lui come delle «teofanie» e delle «ierofanie», vale a dire come delle manifestazioni del sacro, del divino in genere.
Come un noto storico contemporaneo delle religioni ha detto efficacemente, la natura per lui non era mai «naturale». Essa, nell’insieme dei suoi fenomeni e dei suoi aspetti – sole, astri, anno, luce, cielo, acque, ecc. – rimandava ad «altro»; direttamente, e non per una interpretazione artificiosa, essa presentava, per lui, i caratteri di un «simbolo sensibile del sovrasensibile», per usare le parole di Olimpiodoro. Già un Aristotele, aveva accusato coloro che pensavano che le entità del cielo, che figuravano in diversi culti antichi, fossero quali le poteva vedere «un bestiame bovino al pascolo».
Una volta riconosciuto ciò, è evidente che la conoscenza dell’accennata «preistoria», dell’arcaicità e della relativa universalità di quel che corrisponde alle feste di fin dell’anno non equivale per nulla a ricondurre il superiore all’inferiore e al profano. Al contrario, semmai, perché, spesso, si è riportati ad una spiritualità della quale era espressione la stessa lingua delle cose; a miti, che pur assumendo come base i fenomeni della natura, si indirizzavano all’interiorità umana. Un mondo di una primordiale grandezza, non chiuso in una particolare credenza, che doveva offuscarsi quando quel che vi corrispose assunse un carattere puramente soggettivo e privato, sussistendo soltanto sotto le specie di feste convenute del calendario borghese che valgono soprattutto perché si tratta di giorni in cui si è dispensati dal lavorare e che al massimo offrono occasioni di socievolezza e di divertimento nella «civiltà dei consumi».
Julius Evola
(Articolo tratto da “Roma” del 5 Gennaio 1972, raccolto in Ultimi scritti, Controcorrente, Napoli, 1977.)
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