“Dato che il mondo prende una direzione delirante, occorre assumere un punto di vista delirante.”
Jean Baudrillard
Come ogni sera Adamo ed Eva, in coda ad un disciplinato gruppo di Nuove Coppie con la Uno bianca posteggiata in seconda fila, aspettano il proprio turno davanti al distributore di videocassette, per noleggiare un film che conferisca senso alle loro nozze e alla serata davanti al televisore.
Il primato che noi occidentali abbiamo sempre avuto rispetto agli altri popoli della terra, è quello di essere stati i signori delle macchine (lo sanno bene -oggi- quelle figure cariche di presagio escatologico che sono i lavavetri extracomunitari appostati ai semafori), consistendo il nostro vanto principale nell’avere enormemente sviluppato le scienze quantitative e razionali di contro agli spiritualismi “irrazionalistici”; salvo avendo talvolta conservato un ambito lecito per l’elaborazione degli idealismi nella pratica artistica. Ma oggi, che queste caratteristiche appartengono ormai all’umanità intera e che in occidente -grazie alla rivoluzione informatica- si parla addirittura di dematerializzazione del mondo e delle macchine, il nostro immaginario nutre nuove mitologie -proiezioni di rappresentazioni collettive- che configurano un inedito paesaggio tecnologico nel quale sembra venire surrettiziamente recuperata, di quell’oriente di cui siamo stati giudici presuntuosi, la valenza metafisica.
Un distributore automatico di videocassette non è solo quel segnale urbano quasi cyberpunk che -insieme a Bancomat e Self Services di carburante- denota la rivoluzione informatica ed ideologica di cui siamo stati protagonisti. Questo Totem d’acciaio e di chips é anche una chiara metonimia di sé stesso, essendo -di fatto- uno dei medium attraverso cui il principale linguaggio narrativo contemporaneo (quello cinematografico) entra nei nostri salotti ed evoca fantasmaticamente ambienti e situazioni immaginarie e sottili; narrazioni mitopoietiche profondamente permeate -almeno, ma non solo, nel caso del cinema fantasy– proprio di un’atmosfera tecnologica fatta di ferro e di magia (di Hardware e di Software, se si vuole) erede, oltre che dei racconti di Philip K. Dick, anche di un primitivo sciamanesimo della natura.
Se il nostro immaginale non è poi suggestionato dal cinema o da una certa letteratura (pensiamo al gigantesco successo dei romanzi di Stephen King), lo sarà certamente dal fumetto, racconto per immagini che non conosce crisi e che anzi, in quell’estremo occidente chiamato Giappone, è così pervasivo da costituirvi addirittura un grave problema sociologico. Dai super eroi della Marvel al fumetto italiano d’autore, i soggetti più frequenti ci presentano come protagonisti degli eroi per i quali -agenti in paesaggi appocalittici e robotizzati- il potere tecnologico si lega ad una sorta di potenza magica, di shakti, come direbbero gli indù; per non dir nulla della pervasività -di queste cifre- nell’universo dei giocattoli, strumenti -da sempre- di un come se fondamentalmente iniziatico.
Ma il sogno prosegue ad occhi aperti. L’abitacolo della nostra automobile ci propone cruscotti digitali che evocano le sacrali atmosfere di 2001 Odissea nello spazio, con un design il cui simbolismo fantatecnologico supera di gran lunga l’effettiva potenza delle poche centraline elettroniche usate -oggi- per aggiornare una meccanica (quella del motore a scoppio) decisamente obsoleta. Per poche migliaia di lire, in edicola possiamo comprare i telecomandi per una presunta televisione interattiva, recente trovata di marketing dei geni dell’imprenditoria italiana. Di notte, in discoteca, viviamo anima e corpo l’estasi della musica Techno, prodotta col computer modulando -in un certo senso- il verso dell’elettricità.
Il background immaginario con cui le giovani generazioni si affacciano sul panorama del nuovo millennio, è così quello di un grande racconto di fantascienza, completo di una una superba colonna sonora e in cui reale e virtuale (per citare proprio una delle espressioni più trendy dei nostri giorni) si confondono nell’atmosfera quasi tahitiana -pseudospiritualmente deterministica- di una sorta di meccanica della trascendenza.
D’altronde Esiodo chiamava la nostra epoca (senza aver mai visto un’autostrada) Età del ferro, ultima tappa di una discesa involutiva -una dequalificazione ciclica- della sostanza stessa del mondo verso un Apocalisse (uno “svelamento”) della storia e del cosmo intero. Età del ferro e della magia, dove il paradosso scientifico della relatività è diventata la cifra di una Nuova Era del Network Trasparente, sogno macluhaniano -certamente infranto- di una possibile redenzione dell’occidente. E il ferro è materia per eccellenza; nelle antiche cosmologie, essa è considerata sostanza femminile portatrice di valenza pratica da contrapporsi all’essenza maschile (o simbolica) dello spirito. Infatti gli Indù definiscono la nostra éra Kali Yuga, età di Kalì, dove la dea dalle molteplici braccia rappresenta la femminilità cosmica alla sua massima potenza, al suo estremo livello di pragmatismo -se vogliamo- meccanicistico.
Stiamo attraversando -dunque- un processo storico neofuturista che sembra essere rifondativo delle stesse categorie filosofiche che hanno segnato, finora, lo sviluppo della modernità; anche in ambito accademico, nel cui contesto sempre più spesso l’intellettuale sembra essere diventato (come nel caso delle teorizzazioni sulla realtà virtuale) il teurgo delle nuove nozze chimiche fra spirito e materia, dove la sostanza animica è dissimulata nella smaterializzazione dei microprocessori e la tecnologia trascendentale l’oggetto del vero culto.
E i poveri artisti, ancora ad indicare la possibilità di un raccordo fra “nuove tecniche” e produzioni tradizionali, ancora ad esporre maschere a gas e macchine più o meno celibi, ancora ad intessere le lodi di un’estetica svincolata dall’ancillaggio nei confronti della metafisica, mentre ormai -poiché solo l’estetica è sopravvissuta all’azzeramento del passato materialismo- ogni singolo oggetto prodotto dalla nostra ex civiltà delle macchine è, prima di tutto, superficie narrante, snodo metaforico, oggetto “sacro”. I prodotti artistici sono forse gli ultimi a riferirsi ad una semiosfera -che non esiste più- in cui regna il dualismo cartesiano fra spirito e materia, fra simbolo e prassi; mentre l’Akira giapponese -fortunato protagonista di un famoso Manga- già col suo essere personaggio a fumetti e contemporaneamente proiezione mitologica (in una trama in cui ovviamente si mesticano sacralità e tecnologia) rappresenta, non solo, lo stato dell’arte, ma addirittura lo stato della consapevolezza estetica, ultimo baluardo -e giustificazione- di pratiche esistenziali ormai solo feticistiche.
Ora, noi lo sappiamo; la serata di Adamo ed Eva è, in realtà, clonata dal tempo prima della Rivoluzione. Di quando i reggiseni erano considerati strumenti maschili di assoggettamento culturale della donna e la famiglia, insieme ai valori dello spirito e dell’arte, era -si diceva- in crisi.
Come ben rappresentato, nella scena di Metropolis di F.Lang, il cammino dell’uomo è una continua salita e discesa. Si sale per accedere ed aspirare ad un qualcosa di idealizzato ma, subito dopo, si scende verso l’oscurità e lo sbandamento. Sarà un’entità superiore a dirigerci e proteggerci in uno pseudo mondo in stile Mulino Bianco? Nel ‘Cogito ergo sum’ cartesiano rileggo una basilare necessità dell’uomo moderno di riappropriarsi di un’identità: quell’identità che necessita dalla sete di conoscenza, madre della crescita interiore e sociale. E, poi, come disse Nietzsche: “abbiamo l’arte per non morire a causa della verità”.