Il mito è nelle diverse culture qualcosa di estremamente profondo, la cui importanza difficilmente le spiegazioni psicologiche o sociologiche riescono a ridimensionare. Sia quando la psicologia interpreta le costruzioni mitologiche come proiezioni di tensioni interiori che trovano in questo modo la maniera di sfogarsi, sia quando la sociologia le legge come insiemi di ideali ed aspirazioni che catalizzano con la loro forza il comportamento collettivo, quando cioè – in entrambi questi casi ma anche in molti altri – l’impianto razionale che caratterizza il pensiero moderno crede di riuscire a ridurre l’importanza della componente irrazionale dell’esistenza, ecco che tale componente si ripresenta inaspettatamente, magari camuffata sotto le mentite spoglie di una tendenza tecnofila. Ed è indubbio che l’informatica, con tutto l’apparato epistemico e comportamentale di cui è portatrice, sia recentemente assurta al rango di nuova mitologia, veicolo di tutta una nuova concezione dell’uomo e del suo destino.
Sarebbe troppo dispendioso in questa sede riassumere pur brevemente il percorso filosofico ed immaginale che – attraverso una sorta di “divinizzazione” della tecnica, confortata dagli innegabili successi ottenuti nel corso del novecento nella sfida alla natura, già avviata ancor prima del Rinascimento – ha condotto all’estetica pseudometafisica della cybercultura contemporanea; di fatto – come abbiamo già notato – la fantascienza ha rivisto gran parte dei suoi classici topoi narrativi, quelli riconducibili alle grandi mitologie del passato presentate in chiave moderna (gli spazi interstellari come cieli trascendenti, gli extraterrestri come angeli e demoni, il potere tecnologico come potere magico), sostituendoli con corrispettivi informatici (il viaggio magico come viaggio in rete o l’invisibile dello spirito come immateriale digitale, per esempio). Così, tutta la narrazione che nella seconda metà del novecento ha accompagnato ed alimentato il progresso scientifico, descrivendolo come viaggio/conquista dello spazio esteriore, si è convertito – o forse introvertito – nella dimensione informatica, assumendo i nuovi connotati del viaggio/conquista di uno spazio – di nuovo – interiore.
In questa nuova fantascienza, che percorre ad esempio molte produzioni fumettistiche giapponesi, si sono abbandonate le facili associazioni tra metafisico ed ultra-fisico (Superman), per ripiegare su una letterale smaterializzazione, nel non-luogo informatico, della sua stessa fisicità da redimere, che diviene in qualche modo pseudo-spiritualità.
Ecco dunque che tutta una serie di nuove saghe pseudo-mitologiche cinematografiche e a fumetti, che miscelano epica tradizionale e tecnologia futuribile nel segno di un neo-cavallerismo dalle velleità archetipiche, contribuiscono a plasmare l’immaginario – dunque il comportamento sociale – delle nuove generazioni, in un universo narrativo dove la carne non necessita più di redenzione perché già fattasi virtuale, corpo di luce. In questa prospettiva, l’universo dei videogiochi – in particolare quelli che si presentano nella tecnologia delle consolle dedicate – diviene il corpus hermeticum di nuove mitologie fanta-tecnologiche e para-spirituali, che descrivono – corroborate proprio dal senso di fiction che le caratterizza, unito alla forza di convincimento percettivo dovuto alla simulazione immersiva in first person – nuovi modelli collettivi di rappresentazione e di identificazione, non solo in termini psicologici ma anche in termini di appercezione sensoriale.
Come ebbe a scrivere alcuni anni orsono Elemire Zolla nel suo Uscite dal mondo,1 le tecnologie del virtuale – delle quali i videogiochi rappresentano la punta emergente e commerciale – abituano a vivere la propria corporeità in una nuova forma immateriale, psicologica, in qualche modo analoga alla forma animica e miracolosa attribuita tradizionalmente ai santi, agli asceti e agli sciamani dell’antichità; in questo senso, questa tecnologia consente di vivere una inquietante sottospecie di “viaggio nello spirito”, che nella sua forma originale è caratterizzato – secondo le antiche tradizioni – proprio dalla coincidenza, in qualche modo onirica, tra soggetto ed oggetto della conoscenza, e dalla immersione in una specie di identità trascendentale con il mondo.
D’altronde, lo stesso concetto di “intelligenza collettiva” – così come è stata teorizzata da alcuni filosofi, fra i quali spicca lo studioso ebreo/francese Pierre Lévi – trasferisce, sul piano dell’esperienza sociale contemporanea, l’idea mitologica di unità metafisica: non a caso essa ricorda così da vicino quella partecipatiòn mistique che per l’antropologia caratterizza il senso di unità, in termini etnici e simbolici, nei popoli cosiddetti primitivi, fra i quali, nell’adesione spontanea all’edificio delle credenze metafisiche metabolizzate dal gruppo, il singolo è condotto a sciogliersi mentalmente nella sostanza psichica collettiva.2 Un po’ come accade, in ambito cristiano, nel rito della partecipazione liturgica al corpo mistico di Cristo, “corpo” che coincide contemporaneamente con la Chiesa e con l’insieme dei credenti.
Ma per una definizione corretta di “mito” così come si presenta all’interno delle culture tradizionali, occorre rifarsi al pensiero e alle parole di Mircea Eliade, e in particolare al suo scritto Mito e realtà. Secondo Eliade il mito narra una vera e propria storia, che pur essendo “sacra”, o meglio proprio per questo, è nondimeno reale, tanto più reale in quanto informa – con la propria struttura archetipica – la stessa realtà – in questo senso solo immaginaria ed illusoria – della vita comune. I riti deterrebbero quindi il ruolo di rivivificare ciclicamente – in questo senso – la realtà empirica, riattualizzando l’evento primordiale o gli eventi capitali di tale originaria “creazione” del mondo.
In questo senso va pure interpretata la dottrina buddhista, che si differenzia dalle altre forme mitologiche tradizionali per il carattere esplicito delle sue affermazioni, palesemente metafisiche: il buddhismo, infatti, è detto anche la “dottrina del risveglio”. Il suo scopo principale è di condurre l’asceta alla realizzazione dell’irrealtà del mondo, del suo carattere transitorio e in qualche modo arbitrario, per risvegliare l’essere che “dorme” sopito nelle costruzioni illusorie di Maya, costretto a vagare senza fine fra le correnti del Samsara, l’oceano cosmico del divenire. In questo modo verrebbe a cessare il dolore dell’esistenza, dell’ex-sistere, dello “stare fuori” dal vero Essere, che in quanto tale è “vuoto”, al di là di ogni qualificazione.3
Credo che The Matrix4 sia in un certo senso – almeno per quanto riguarda l’immaginario che descrive – il capolavoro cinematografico degli anni ’90, un po’ come Blade Runner lo è stato degli anni ’80. La pellicola è estremamente significativa per l’indagine che stiamo conducendo, per molti motivi. Innanzitutto per il soggetto fantastico, che abbandona definitivamente i temi fantascientifici connessi allo spazio – diciamo così – “analogico”, nei quali, come abbiamo visto, il viaggio intergalattico riveste di un carattere materialistico i temi tradizionali delle grandi mitologie del passato. Ma poi soprattutto perché il soggetto, oltre a raccontare una storia esplicitamente “sacra” – o pseudo tale – si configura fondamentalmente come una moderna parabola del risveglio spirituale, confermando completamente l’ipotesi di Zolla – precedentemente ricordata – circa una possibilità implicita alle tecnologie della realtà virtuale di condurre verso la consapevolezza di una radicale illusorietà di ogni empirico senso di realtà.
La trama racconta di un mondo futuribile, in tutto simile al nostro, ma composto in realtà da una simulazione virtuale generata da un computer – Matrix – finalizzata al controllo l’umanità, e di come il personaggio protagonista – Neo, novello profeta e salvatore – allertato dai sentori tipici narrati da ogni storia sacra tradizionale (premonizioni, inquietudini e coincidenze), gradualmente raggiunga la consapevolezza di tale “inganno” cosmico, e quindi – attraverso intricate e cavalleresche peripezie – favorisca il risveglio degli uomini imprigionati nel grande sogno che abitano, e che appare loro come la realtà. Non occorre soffermarsi sul fatto che moltissimi indici narrativi del film sembrano desunti – addirittura nei nomi (la città Zion, il personaggio Morpheus e lo stesso Neo) – dalle grandi tradizioni metafisiche e religiose dell’antichità; questo, oltre ad essere tipico della letteratura del genere ed essere già stato abbondantemente praticato dalla cinematografia fantastica degli ultimi trent’anni,5 conferma peraltro la vocazione principale della fantascienza, che ha lo scopo esplicito di affrontare temi mitologici spiegandoli con argomentazioni pseudo-scientifiche; ciò che invece c’è di nuovo in questa pellicola, è la citazione esplicita del tema principale di ogni narrazione mitico-religiosa, quello del risveglio spirituale.
Ogni dottrina metafisica poggia sull’ipotesi – che talora come nell’induismo e in particolar modo nel buddhismo assume un profilo totalizzante – che la realtà che ci troviamo a vivere non sia che sogno, illusione, inganno, o – nel migliore dei casi, come nello stesso cristianesimo – episodio secondario e marginale di fronte alla totalità metafisica del nostro essere. Secondo una tradizione profetica dell’Islam, “l’uomo dorme, e quando muore si sveglia”, e come noto – e già ricordato – il buddhismo assume anche la denominazione di “dottrina del risveglio”. Il Buddha stesso è detto “il risvegliato”, colui che – grazie alla meditazione e secondo un destino (dharma) metafisico che ne vuole fare uno strumento di risveglio per l’umanità intera – si rende conto dell’illusorietà della realtà, del suo sostanziale non-essere, pervenendo dall’ignoranza (avidya) alla conoscenza (vidya). In questa dottrina, a intessere l’apparenza della realtà è una divinità che si chiama Maya, regina, con i suoi veli, dell’apparenza illusoria delle cose.6
Maya, come Matrix, intesse con il suo potere demiurgico l’apparenza della realtà nelle coscienze degli esseri umani che – in questo modo – non scorgono la realtà autentica che si nasconde sotto i suoi veli, e – vittime dell’ignoranza – sono destinati a vivere in eterno di sogno in sogno, tormentati dal dolore esistenziale.
E’ come se il novecento finalmente avesse verificato che l’insieme delle sue rappresentazioni non consistesse nient’altro che in un’illusione, e dunque – con la realtà virtuale – tentasse di dare consistenza in qualche modo reale a questo sogno. L’obiettivo – per esempio – di conquistare lo spazio cosmico, di trovare al di là dei limiti naturali del cielo fisico una ragione all’insondabile mistero dell’esistenza terrena, sublimandolo nella ricerca – realmente metafisica – di forme “extraterrestri” di vita, si è rivelato – alla fine del millennio – un’utopia, esattamente un sogno. Ecco allora che l’elettronica – che non ci ha permesso di arrivare su Marte – ci permette però di vivere come collettività questo sogno, dando ad esso un corpo meta-fisico (o se si preferisce pseudo-spirituale) totalmente credibile, coinvolgente, immersivo, interattivo.
E quando non c’e’ più differenza fra sogno e realtà, fra percezione soggettiva e mondo empirico, quando – ancor meglio – la realtà empirica si sostanzia di “oggettiva” materia onirica – come appunto accade in ogni realtà virtuale – quale paradigma di priorità del vero sul falso invocare? Se la bistecca virtuale di The Matrix ha – per le virtuali papille gustative del “sognatore” che la degusta – un sapore migliore di una bistecca vera, quale principio invocare per scegliere la seconda alla prima? Quando la psicologia e la biotecnologia sapranno evitarci gli scompensi fisici e mentali dovuti alla sola frequentazione del mondo virtuale di contro a quello reale – o meglio attuale – perché dedicarci alla banalità della veglia se le soddisfazioni del sogno saranno totali? Per citare il film, alla fine sceglieremo la pillola blu o la pillola rossa, quella del risveglio?
In questo discorso interviene il livello che potremmo definire del “limite”. Si tratta in fondo dei limiti – determinati da priorità etiche – che si stabiliscono fra livelli ontologici della realtà. Confrontato con la realtà virtuale, un film lascia in fondo insoddisfatti, per gli stessi limiti tecnologici relativi all’artificialità della postura fisica e mentale a cui la sua fruizione ci obbliga nell’esperienza pur virtuale in cui consiste la sua visione; il limite della virtualità è – nella forma dello spettacolo – ancora insufficiente, per poter aspirare a mettersi in concorrenza con la realtà, e dunque i due livelli di esistenza, quello mentale e quello fisico, possono convivere dando vita a tutto l’insieme dei meccanismi compensatori dell’equilibrio psicologico. Ma quando tale limite si sposta e si innalza al di sopra di un certo livello, allora l’equilibrio si spezza, esattamente come quando una droga smette di fare danni fisici. Quale paradigma di valore invocare, per giustificare il rifiuto di assumerla?
L’uomo ha veramente cominciato ad oltrepassare i limiti da quando ha rifiutato la metafisica, e come portatore di un pensiero e di un’etica “laica” si è avventurato oltre le colonne d’Ercole delle rappresentazioni tradizionali. Oggi si trova a dover rifondare principi – anche parodisticamente – spirituali, i soli che possano intervenire a dare il senso della misura, e dell’unità perduta delle cose.
Ho trovato questo articolo molto interessante. Concordo nel considerare il film The matrix più che un prodotto cinematografico, sono numerosi e vari i significati infusi nella produzione. Mi collego ad alcune sue osservazioni per svolgere un mio pensiero personale, ma, penso, condiviso anche da altri. Il rapporto tra realtà e finzione, nel film così come nel mondo di tutti i giorni, è assolutamente indistinguibile. Ha ragione Morpheus a chiedere a Neo: “Che cos’è la realtà? Dammi una definizione di realtà?”. Nessuno può distinguere in modo netto questi due archetipi, lo stesso Neo usa come mezzo per uscire dalla finzione di Matrix un pc, ossia uno strumento che rappresenta la non realtà. Attraverso il computer Neo cerca di tornare alla realtà (nelle prime scene del film il primo contatto tra Neo e Morpheus avviene in una chat privata, è lì che gli viene chiesto di seguire il coniglio bianco, chiaro riferimento al libro di Carroll), in un procedimento simile a quello che accade tuttora. Mi chiedo spesso: se posto di fronte alla scelta tra pillola blu e pillola rossa, quale sceglierei? L’uomo per sua stessa natura cerca la Verità, ma sa bene che non potrà mai trovarla, è per lui inconoscibile. Se quindi non si potrà mai avere la certezza di vivere nella realtà, perché non accontentarsi di un mondo fittizio, ma appagante. Perché non optare per la bistecca che appare più buona di quella reale? Stesso discorso può essere applicato a coloro che creano un vero e proprio IO virtuale e arrivano al punto di vivere in un mondo che sanno essere di finzione, ma reputato migliore di quello reale.
L’Aleph, l’illuminazione, la Verità è un momento riservato a pochi eletti. L’uomo vuole essere svegliato dal torpore in cui vive. Il come “tornare a vivere”, il come “tornare a vedere” è un procedimento complesso. “L’uomo dorme e quando muore si risveglia”, può forse essere questa la risposta? Potrebbe. Mi permetto un aneddoto per approfondire questa considerazione. In molti templi giapponesi, all’entrata, sono presenti le statue di due cani-leoni; la particolarità di queste statue è che una delle due ha la bocca aperta, mentre l’altra chiusa. La bocca aperta fa riferimento alla sillaba AH, la prima lettera dell’alfabeto sanscrito, mentre la bocca chiusa richiama la sillaba UN, l’ultima lettera. La combinazione rappresenta rispettivamente la nascita e la morte, simbolo che solo quando queste due parti, che per loro stessa natura non possono coesistere, si fondono in una sola, per l’umanità si può aprire una porta. Dove porti questo varco è un mistero.
La tematica, di estrema attualità, riguardante il binomio reale vs virtuale richiede un certa dose di equilibrismo concettuale. Il legame che si è generato tra i due stati determina inevitabilmente un cortocircuito nel modo di agire e pensare dell’uomo post moderno. Come vivere in una complessità reale e, nello stesso tempo, aspirare ad un pseudo mondo che poggia sulla virtualità? Equilibrismo per raggiungere un sogno di perfezione ideale o puro spirito di scoperta? Nei templi induisti indiani, prima di entrare, si lasciano le tentazioni del corpo fuori con tutte le varie rappresentazioni scolpite sulle pareti. Solo all’interno del tempio si entra in comunicazione con l’ultraterreno. Ora ciò che mi rende dubbioso è il medium tecnologico, potente e terzo strumento di un viaggio nel quale siamo trascinati.