L'antico proverbio tratto dal discorso di Tito Caio al senato romano - verba volant, scripta manent - esprime la grande differenza che tradizionalmente è esistita fra oralità e scrittura, fra parola "detta" e parola "scritta", attribuendo alla prima un carattere di volatilità e di non-permanenza, e alla seconda un carattere di stabilità e perpetuità. Il suggerimento implicito al proverbio è quello di prestare grande attenzione a ciò che si scrive, dato il carattere incontrovertibilmente documentario della scrittura, che rimane nel tempo ed impegna - nel bene e nel male - lo scrittore per sempre.
Con l'avvento delle nuove tecnologie informatiche di comunicazione, questo rapporto fra parola volatile e scrittura persistente è profondamente cambiato: la parola scritta è diventata a tutti gli effetti "volatile" (pensiamo agli sms, alle email o in generale alla scrittura digitale), assumendo la provvisorietà e l'inconsistenza tipiche della parola pronunciata; questa, a sua volta, rafforzata dalla virale attività di registrazione e documentazione videografica (e la conseguente archiviazione in sæcula sæculorum nelle reti telematiche), ha - viceversa - fatto proprie quelle caratteristiche di persistenza e probatorietà tipiche della scrittura.
Questa con-fusione - tipicamente post-moderna - di caratteristiche strutturali "portanti" della rappresentazione del mondo, produce un orizzonte inedito di comunicazione col quale confrontarsi, non senza problemi di adattamento. Per esempio, il processo di rifinitura formale del discorso, tipico della scrittura, molto difficilmente potrà essere applicato alla registrazione della comunicazione orale; d'altronde, il "parlare come un libro stampato" necessariamente deve rinunciare alla dimensione performativa dell'improvvisazione retorica, per definizione molto poco controllabile.
Inoltre, il discorso scritto è stato tradizionalmente un discorso logico (logos), mentre il discorso pronunciato è stato tradizionalmente un discorso mitico (mythos).
Pubblicare in versione videografica estratti da lezioni tenute "in presenza", non ha dunque un mero senso documentario, che difficilmente potrebbe sostituire l'esperienza dell'incontro - correttamente contestualizzato - fra interlocutori istituzionali (docenti e studenti), ma piuttosto quello di sperimentare e verificare l'efficacia di nuove forme di "scrittura", mettendoci - come si dice - "la faccia" ed accettando i rischi che - immancabilmente - ogni riformulazione di assetti comunicazionali - ed esistenziali - consolidati comporta.
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Sull’impervia strada della consapevolezza noi siamo il nostro passato.
“In ogni estetica è implicita una politica e in ogni politica è implicita un’estetica.”
Lo scopo dell’arte nei secoli è dare visibilità all’invisibile manifestando la sua natura tramite la politica spazio-temporale circostante, che crea i sistemi di rappresentazione del mondo. Le ideologie del ‘900 (comunismo, fascismo e liberismo) hanno rovesciato le direttive esclusive che prima appartenevano ai monarchi e si sono contese il primato della modernità: pertanto, le tre visioni del mondo si sono divise la rappresentazione della realtà nelle sue manifestazioni socio-culturali con un linguaggio pedagogico di allevamento politico per le nuove generazioni. Ogni forma artistica del ‘900 senza alternativa si è dovuta riferire a questa imposizione: infatti, le tre ideologie sono considerate moderne per l’apporto evolutivo che hanno diffuso tra le masse attraverso propaganda e pubblicità. Punti di riferimento del loro logos sono: la lotta di classe per il comunismo, la battaglia per l’appartenenza dell’individuo ad una comunità artificialmente costituita e funzionalmente predisposta, al fine della civiltà; la razza per il fascismo, una realtà geopolitica che segnala l’appartenenza di un individuo ad una comunità per natura; l’individuo per il liberismo, l’elemento che non si può dividere ulteriormente. Il passaggio è dalla cultura alla natura, fino al soggetto.
In sintesi: ciò che facciamo organizzandoci in base alla collettività, ciò che siamo quando nasciamo e ciò che sono io a prescindere da qualsiasi partecipazione comunitaria. Ogni testo e manufatto artistico prodotti nel ‘900 sono letti alla luce di queste tre filosofie estetiche, poiché ciascuno di noi oggi partecipa innegabilmente ad una di queste tre declinazioni intese come compagini sociali, biologiche e psicologiche.
Detto ciò, come è possibile ritenerci unici e reali in un mondo dove tutti, pur brillanti e coscientemente ricettivi, sembriamo marionette i cui fili sono tirati da entità oscure e forse nemmeno esistenti? Oppure secondo un’altra prospettiva, essendo così inseriti in certi schemi, può la nostra umanità riconoscersi in noi e tra noi per salvarne spregiudicatamente le redini? La seconda è più una speranza nella “fede esistenziale”.