Altro ambito coinvolto in prima persona nel discorso che andiamo facendo è quello che la cultura moderna ha riservato, fra l’altro probabilmente anche come valvola di sfogo, a ciò che spesso impropriamente è stato definito «l’irrazionale», meglio identificato dagli addetti ai lavori come «l’ambiguo»: ci riferiamo all’ambito estetico.
Anche l’intuizione artistica è oggi in qualche modo ipostatizzata, e il prototipo omerico del veggente cieco, del poeta che non abbisogna degli occhi fisici perché dotato della vista interiore, ancora domina, ma lungo i canoni di un’estetica selvaggia, slegata cioè da ogni paradigma metafisico, la quale si muove nel migliore dei casi attraverso gli indeterminati percorsi, spesso a loro volta neomitici, dello psicologismo.
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La rivoluzione digitale che sta caratterizzando lo sviluppo delle tecnologie d’uso quotidiano, quelle macchine che sempre più numerose ed economiche ci circondano ed arricchiscono – a dire il vero sempre più qualitativamente oltre che quantitativamente – ciò che i designer chiamano il “parco degli oggetti”, l’insieme insomma delle estensioni “protesiche” del corpo, che negli ultimi anni ha moltiplicato il potere penetrante dei nostri sensi naturali nei confronti del mondo, ha conferito – a tali oggetti – una caratteristica che sembra destinata ad esasperarsi sempre più e che, insieme certamente ad altri fattori, sta contribuendo a causare ciò che taluni definiscono, più o meno letteralmente, “smaterializzazione della realtà”: mi riferisco alla progressiva miniaturizzazione delle componenti elettroniche degli oggetti d’uso, miniaturizzazione che sembra avere come limite estremo soltanto l’effettiva usabilità fisica e fisiologica da parte dell’utente, nella prospettiva di una finale – definitiva – implementazione “organica” nel suo stesso corpo.
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Pensavamo si trattasse di un fenomeno passeggero, semplicemente legato al successo di un film di cassetta, che si sarebbe esaurito con l’uscita di quel film dalle sale di prima visione e che avremmo presto visto evaporare nella semiosfera nebulosa e satura di un immaginario collettivo sempre più caotico e frattale. Invece il fenomeno continua ed anzi avanza, l’industria della comunicazione -dalla pubblicità di provincia ai grandi progetti di marketing- continua a proporne le sconcertanti immagini, che sembrano destinate a diventare un caposaldo dei topoi immaginali di tutti gli anni novanta, o quantomeno la loro -almeno questa, certa- origine.
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Come talvolta è stato fatto notato dagli storici della scienza, nelle culture pre-scientifiche dominava una descrizione simbolica del mondo svolta secondo un registro fondamentalmente binario, la quale, muovendo dalle immagini archetipiche del binomio cosmico sole-luna, ad esso faceva corrispondere analogicamente ogni ente manifestato ed ogni suo aspetto: il giorno e la notte, il bianco e il nero, il maschile e il femminile. Questa bipartizione di base veniva però spesso concepita nella dinamica di un’alternanza incrociata, secondo una legge naturale per la quale ogni ente manifestato in un ordine di esistenza sottoposto al dominio binario, deve per definizione ritrovare anche in se stesso tale bipolarizzazione. Come in una infinita catena di scatole cinesi, ogni ente che secondo l’impianto “figura-sfondo” partecipa dell’idea della “figura” o dello “sfondo” (per esprimerci secondo un simbolismo visivo), deve a sua volta ritrovare in sé una identica bipartizione dei suoi elementi costitutivi, e così all’infinito. Per questo motivo alla base delle catene simboliche tradizionali si ritrova spesso – più che il simbolo binario – quello del quaternario. Il numero 4 e la sua raffigurazione iconica, il quadrato (che poi diventa cubo, casa etc.), corrispondono sempre ad una raffigurazione simbolica del “mondo” nel suo insieme, inteso sul suo versante più propriamente materiale.
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Il mito è nelle diverse culture qualcosa di estremamente profondo, la cui importanza difficilmente le spiegazioni psicologiche o sociologiche riescono a ridimensionare. Sia quando la psicologia interpreta le costruzioni mitologiche come proiezioni di tensioni interiori che trovano in questo modo la maniera di sfogarsi, sia quando la sociologia le legge come insiemi di ideali ed aspirazioni che catalizzano con la loro forza il comportamento collettivo, quando cioè – in entrambi questi casi ma anche in molti altri – l’impianto razionale che caratterizza il pensiero moderno crede di riuscire a ridurre l’importanza della componente irrazionale dell’esistenza, ecco che tale componente si ripresenta inaspettatamente, magari camuffata sotto le mentite spoglie di una tendenza tecnofila. Ed è indubbio che l’informatica, con tutto l’apparato epistemico e comportamentale di cui è portatrice, sia recentemente assurta al rango di nuova mitologia, veicolo di tutta una nuova concezione dell’uomo e del suo destino.
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